Corriere della Sera, 29 agosto 2021
Con il Covid J-Ax è tornato a pregare
Non è mai stato ateo, J-Ax. Certo, nemmeno un grande credente. «Ero un cristiano come lo sono molti in Italia, non praticante. Ma ho avuto un’educazione cattolica piuttosto rigida, ho fatto tutti i sacramenti, mi sono sposato in chiesa. Quindi no, non ho quel rifiuto a priori che tanti si aspetterebbero da me».
Quindi cosa è cambiato in lei?
«Il mio è un discorso semplice: qualsiasi uomo, anche il più ateo, quando vede la morte da vicino si appella a qualcosa di superiore: può essere Dio o ogni altra entità a cui ti aggrappi».
Ha visto la morte da vicino?
«Quando ho avuto il Covid, ad aprile, ero terrorizzato. Avevo mal di ossa, ma era un male di ossa mai provato prima, come un mal di stomaco, un mal di testa mai provati prima. Era qualcosa di esageratamente più forte rispetto a come siamo abituati: la sensazione è che il tuo sistema immunitario stia fronteggiando un male a cui non era abituato. Lo avverti».
Ed è in quei momenti che si è ritrovato a pregare?
«Sì, è come un imprinting: ti scopri a recitare quelle preghiere che ti avevano insegnato da bambino. Per dieci giorni sono stato veramente male, non dormivo la notte e la preghiera era che tutto non arrivasse ai polmoni. Mia moglie non riusciva più a mangiare: non lo ha fatto per quattro giorni. Lei non riusciva ad alzarsi dal letto e io giocavo con mio figlio, che ha quattro anni. Il mio pensiero era: e se io peggioro, lui con chi va? Chi lo tiene? Come si fa?».
Non è successo.
«Ho tenuto duro pensando a questo, una situazione veramente assurda. Mi sforzavo di mangiare tenendo chiusa la bocca con le mani, per cacciare i conati di vomito: sentivo che dovevo farlo, per avere la benzina per stare con lui. Per fortuna abbiamo una casa abbastanza grande, con un giardino. Ci siamo inventati un po’ di giochi, abbiamo fatto mille disegni. E ringraziando l’entità superiore che non vogliamo per forza chiamare Dio, ne siamo usciti».
Come ci si sente, dopo?
«Avercela fatta ad affrontare una situazione così, psicologicamente, dà un po’ di autostima. Oltre alla botta di fortuna per esserne usciti hai la sensazione di essere riuscito a gestire qualcosa di grosso. Sono sicuro che il Covid è la sfida epocale della nostra generazione. Averlo superato mi ha portato a schierarmi anche per un mondo meno egoista, rafforzando la mia propaganda sui vaccini che mi ha portato molti hater No-vax e minacce, anche di morte».
Di morte?
«Sì: una volta ti mandavano dei proiettili, adesso foto di proiettili. Ma sono sempre profili anonimi, non ci mettono mai il nome. Io capisco che sia tutto nuovo ed è vero che non si sa molto su questi vaccini, ma basta per capire che è la scelta giusta, anche pensando agli altri, per non intasare le terapie intensive. Viene confuso il vaccino con l’antidoto, anche, ma alla fine sono tutte scuse che la gente si trova perché ha paura».
Lei l’ha avuta prima di vaccinarsi?
«Ho avuto il pensiero ma non ho mai avuto il dubbio, non vedevo l’ora di vaccinarmi e anche adesso tengo sotto controllo i miei anticorpi per essere sicuro di essere protetto. C’è chi dice che mi sono imborghesito: senza nulla togliere alla classe operaia da cui provengo, nel caso la mia è stata una crescita che mi sono guadagnato, anche studiando, approfondendo. Probabilmente il fatto è che negli anni Novanta, quando era di moda essere alternativi, noi eravamo populisti, mentre adesso che è mainstream essere populista, mi ritrovo ad essere alternativo».
Va mai in chiesa?
«Ogni tanto mi piace andarci per quel senso di pace, di spiritualità che si avverte. La vivo più come una tradizione, non seguo regole ferree. Ma il sentimento che c’è dietro mi piace. Ho anche difeso Suor Cristina a The Voice... certo, quando ha chiesto a tutti di recitare il Padre nostro mi scappava un po’ da ridere, ma andava bene così. Né con la polizia e né con la Chiesa faccio il discorso di tanti che vedono il marcio: penso che, come in tutte le istituzioni umane, ci sono persone fanno cose orribili e altre che vogliono fare del bene. Ma sono il primo a dire peste e corna della Chiesa quando tenta di interferire con la politica, tipo con il ddl Zan. Anche se nella bassa manovalanza delle parrocchie sono molto più progressisti che ai vertici».
È da sempre una persona che si batte per gli ideali in cui crede?
«No, il successo mi ha reso buono. Da giovane ero molto arrabbiato, risentito. Da ex ragazzino bullizzato mi ero trasformato in una iena e lo sono stato fino a che non ho trovato una serenità familiare e lavorativa. Sapere che se anche dovessi bucare tutti i miei dischi, da qui in avanti, non dovrò comunque cercarmi un lavoro, mi rende più riflessivo e mi fa vivere più positivo».
Che ragazzo era?
«Con difficoltà a relazionarmi, preso di mira perché mi consideravano uno sfigato: ero magro e non mi piaceva il calcio. A parte le botte a scuola, in quella Milano a metà tra il Libro Cuore e Garrone, avevo un risentimento per tutti gli amori non contraccambiati: mi avevano portato a provare una certa misoginia che poi rimane, finché capisci che è solo colpa tua».
Non parlava ai suoi genitori di questo disagio?
«No, a casa non dicevo niente, rifiutavo il dialogo, un classico. Non volevo ammettere di avere un problema, era più facile pensare fosse colpa loro perché non mi compravano il motorino bello o le scarpe giuste. Mi ha fatto impressione quando mi sono ritrovato a cantare Ma Mi di Strehler a mio figlio, una notte che non voleva dormire: era quello che facevano loro con me. Ha funzionato».
Teme mai che suo figlio possa essere un adolescente come lo è stato lei?
«Credo che con un papà come me non potrà fare a meno di dirmi tutto... anche perché, se non lo fa, tanto lo sgamo».