Corriere della Sera, 29 agosto 2021
La corsa alla Bomba riguarda tutti
La maggiore preoccupazione delle potenze nucleari è di evitare che il loro numero aumenti o, nella peggiore delle ipotesi, di ridurre, per quanto possibile la potenza tecnica dei nuovi arrivati. Un tentativo fu fatto con il Trattato di non proliferazione nucleare firmato il 1° luglio 1968 ed entrato in vigore il 1° marzo 1970. Proibisce ai Paesi nucleari di fornire armi e ordigni nucleari ad altri Stati e crea così una gerarchia internazionale fra coloro che ne dispongono e coloro a cui è stato negato il loro possesso. In Italia esistevano in quegli anni personalità politiche e studiosi fra cui Amintore Fanfani e Roberto Gaja (uno dei migliori diplomatici del momento) che avrebbero preferito lasciare all’Italia la maggiore libertà possibile. Ma vi era anche una pubblica opinione che voleva la firma del trattato e privò così il Paese di prospettive che gli avrebbero permesso di stare al passo con le nazioni più avanzate. Il colpo di grazia al nucleare italiano venne più tardi con il referendum del 2011 con cui furono abrogate alcune delle disposizioni che avrebbero agevolato l’insediamento delle centrali nucleari.
Più recentemente, quando l’Iran ha cominciato a produrre uranio arricchito, i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania e l’Ue hanno creato con Teheran un organo speciale chiamato Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action, in italiano Piano d’azione congiunto globale) che ha il compito di vigilare sulla quantità d’uranio custodito da ogni Paese. La formula sembrò soddisfacente fino a quando il presidente americano Donald Trump, l’8 maggio 2018, annunciò il ritiro del suo Paese dal Jcpoa. Era convinto che le organizzazioni internazionali sottraessero poteri alla Casa Bianca e le detestava. Il nuovo presidente, Joe Biden, ha abolito l’ukase di Trump e ha permesso che il suo Paese tornasse così a fare parte del Jcpoa, ma gli iraniani, nel frattempo, hanno annunciato di avere superato il limite fissato per le loro scorte d’uranio. Vogliono approfittare di questo dissenso al vertice degli Stati Uniti per avere maggiore libertà? Quando si chiede ai Paesi nucleari se non sia giunto il momento per adottare una linea più liberale, molti osservano che alcuni Paesi del Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria e all’Iraq, ne approfitterebbero per diventare totalmente nucleari. Ma in un articolo apparso sul New York Times del 12 agosto l’autore (Peter Beinart, professore alla Scuola di giornalismo della City University di New York) ricorda che nel Medio Oriente esiste già ormai da tempo un Paese nucleare. È Israele e avrebbe uno stabilimento per la produzione di testate nucleari nel deserto del Negev; ma non ne ha mai negato o confermato l’esistenza. Vi era tuttavia un brillante giornalista italo-israeliano, Vittorio Dan Segre, che, se interpellato, sorrideva e diceva semplicemente: «Non saremo mai i primi a farne uso». Ma la presenza di uno Stato nucleare in un’area politicamente surriscaldata come il Medio Oriente potrebbe suscitare spirito d’imitazione e in questo caso sarebbe utile riprendere in mano e aggiornare il Trattato di non proliferazione ricordando che il nucleare può dispiacere a qualche Paese europeo, fra cui Italia e da qualche anno Germania, ma non a tutto il mondo.