Corriere della Sera, 29 agosto 2021
L’ambasciatore Pontecorvo: «Quest’esperienza mi ha cambiato»
Afghani da mettere in salvo da persecuzioni. Contatti da tenere con i talebani per ridurre gli ostacoli a espatri di loro potenziali bersagli, considerati da quei fondamentalisti musulmani nemici nella «guerra santa» anche se inermi. Gruppi di persone che non trovavano più spazio su aerei di una determinata nazione da far partire con voli di altri Paesi. Poi giovedì le esplosioni delle bombe rivendicate dall’Isis-Khorasan, fazione locale dei terroristi dello Stato Islamico, e gli spari in mezzo alla folla che hanno causato in totale circa 180 morti e decine di feriti. Non sono state due settimane ordinarie quelle che in agosto ha trascorso all’aeroporto di Kabul Stefano Pontecorvo. Arrivato 16 mesi fa in Afghanistan in qualità di alto rappresentante civile della Nato, 64 anni di età, il diplomatico è atterrato ieri a Fiumicino con uno degli ultimi voli italiani dovuti al ritiro delle truppe deciso dagli Stati Uniti.
«In 14 giorni è come se avessimo svuotato un grande capoluogo di provincia italiano. La comunità internazionale ha reso possibile che andassero via dal Paese circa 120 mila persone», dice Pontecorvo in questa intervista.
Due settimane cupe. Se lo ha, quale ne è un ricordo positivo?
«La solidarietà atlantica e internazionale al suo meglio. E ricorderò alcuni gesti di umanità collettiva e individuali ammirevoli».
In particolare?
«Subito dopo l’attentato, vedere come i militari americani e non solo, che avevano perso, come dicono loro, tredici fra fratelli e sorelle, si sono rimessi all’opera. Con professionalità molto forte. Dopo la scossa vera».
Immagino si riferisca al più vicino tra gli scoppi delle bombe degli attentatori suicidi.
«L’esplosione l’abbiamo sentita tutti. Poi abbiamo visto arrivare quello che abbiamo visto arrivare».
Quali immagini si sono presentate ai vostri occhi mentre la voce delle forze di sicurezza alleate, dagli altoparlanti, segnalava ripetitiva nell’aeroporto «ground attack/ ground attack», attacco di terra?
«La voce diceva questo e soldati di tutte le nazioni non hanno voluto lasciare da soli gli afghani. Sono stati fuori dall’aeroporto con loro. Un coraggio invidiabile. Ground attack vuol dire entra qualcuno che spara. Tu ti metti fra i partenti e quelli che sparano: è un atto di coraggio e di amore fortissimo».
Il ricordo peggiore?
«Ne ho due. La gente che non siamo riusciti a far partire e l’attentato. Le immagini molto grafiche dell’attentato, le persone che passavano per essere portate in ospedale. Due ricordi diversi, ma entrambi forti. Questa esperienza mi ha cambiato la vita».
Che cosa intende per immagini grafiche?
«Già, deriva dal termine inglese. Come quelle violente che vengono oscurate. Stai andando da una parte all’altra e ti passa di fronte un ferito o peggio. Vederlo di persona colpisce. Colpisce».
Oltre a quelle di sicurezza quali sono state le difficoltà principali?
«Una delle difficoltà logistiche con le quali ci siamo confrontati è che da Kabul di solito partivano al massimo sei aerei civili al giorno più un paio di militari. Ne abbiamo fatti decollare 120 al giorno. Controllori di volo e pompieri erano stravolti. Abbiamo fatto uscire in due settimane circa l’80% del numero di passeggeri che partiva dallo scalo di Kabul in un anno, 140 mila. E la base Nato era stata costruita per cinquemila persone. Ne ha ospitate fino a 18 mila».
Lei ha affermato che fuori dall’Afghanistan continuerà ad agire per far espatriare afghani che vogliono lasciare il Paese. Con quali mezzi di trasporto? Attraverso quali vie?
«Principalmente tramite due percorsi. Il primo è la via terrestre: attraverso gli Stati confinanti che hanno voli per i Paesi disposti ad accogliere i profughi. Per il secondo, aereo, capiremo quando l’aeroporto riaprirà. Appena partite le truppe americane lo scalo chiuderà. Ma ci sono trattative, lo si legge anche sui giornali, con Paesi in grado di riaprire velocemente l’aeroporto stesso pure a voli civili. Almeno regionali».
Nelle due settimane all’aeroporto di Kabul lei avrà avuto contatti con i talebani. A quale livello?
«Più che altro livello locale. Con i responsabili della loro sicurezza, soprattutto per facilitare l’afflusso in aeroporto delle persone in partenza. Perché i talebani hanno fatto difficoltà all’espatrio di afghani che avevano lavorato con alcuni Stati della Nato. Sono testimone diretto che ne hanno create molte meno a Paesi ritenuti più vicini».
Conosceva già quei rappresentanti dei talebani?
«No. Nessuno di quelli era ai negoziati di Doha».
Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha detto che per l’Alleanza atlantica la priorità rimane assicurarsi che l’Afghanistan non serva ancora come piattaforma per atti terroristici nei nostri Paesi. Quale garanzia si ha di riuscirci adesso che non si dispone più di truppe lì?
«Le garanzie sono molto poche, anche perché bisogna fidarsi che i primi a impedirlo siano i talebani. Sarà uno sviluppo da seguire, perché ci sarà un governo tutto talebano e i talebani saranno tra due esigenze. Una è essere il governo di un Paese. L’altra è tenere fede alla propria vocazione jihadista la cui etica impone di aiutare gli altri jihadisti. I talebani in quanto tali sono nazionalisti, non compiono attentati in giro per il mondo. Però un intero Afghanistan controllato dai talebani rischia di diventare una terra di nessuno».
Terra di una guerra civile a macchia di leopardo?
«Anche. La guerra civile la vedo soprattutto con l’Isis, con cui ci sono fratture dottrinarie profonde. Con gli altri gruppi jihadisti ed estremisti i talebani possono convivere. In passato lo hanno fatto».