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 2021  agosto 29 Domenica calendario

Biografia di Sara Simeoni raccontata da lei stessa

Roma, Mondiali di atletica 1987. Lei è seduta sulle gradinate dello Stadio dei marmi quando si avvicina una ragazzina lunga lunga e magra nella quale le sembra di riflettersi. Non chiede un autografo, dice che vuole solo ringraziarla: faccio questo sport per merito suo. Oggi quella ragazzina è una donna di quasi cinquant’anni e racconta che conserva ancora il suo poster in camera da letto. Credo non sia la sola a averlo fatto. Sara Simeoni, che di anni ne ha 68, è in vacanza in Valle di Ledro con il marito Erminio Azzaro, una coppia di specialità e di ferro. Ammette che non ha mai pensato a quante vite verticali ha condizionato con le sue vittorie, ma nemmeno con il suo modo di prendersi il mondo in mano partendo da un paese di duemila abitanti in provincia di Verona.

La sua infanzia trascorre a Rivoli, famoso perché nella sua pianura ebbe luogo la battaglia decisiva in cui Napoleone Bonaparte sconfisse l’esercito austriaco durante la prima campagna d’Italia. «Papà e mamma avevano un’azienda agricola, ricordo la stalla, la distesa dei prati messi a frutteto, i vigneti.
Ho guidato il trattore, raccolto il fieno con il forcone e il rastrello per fare i covoni. E poi non dimenticherò mai la bellezza della festa per le vendemmie.
Siamo stati una famiglia quasi numerosa, due sorelle più grandi e un fratello più piccolo, tutti magri come pali».
La sua scheda di atleta specifica: altezza 178 centimetri, peso 60 chilogrammi. A vederla in tv ci sono poche correzioni da fare.
«Beh, ho i capelli bianchi e qualche chilo l’ho messo su, con l’età credo di essermi rimpicciolita. Sa, ci si ingobbisce. In realtà ero alta un metro e settantasette centimetri e mezzo, durante i giorni di gara perdevo almeno tre chili, spesso mi nutrivo soltanto di frutta e verdura».
Era ed è timida come hanno raccontato i suoi biografi?
«Timida è una parola sbagliata.
Sono cauta, non mi lascio andare facilmente. Sto a guardare, non faccio mai il primo passo, non esco dal gruppo solo per farmi notare. Ho bisogno di tastare il terreno, ha presente quei passetti che precedono la rincorsa per il salto? Ecco, devo trovare un ambiente protetto, per rilassarmi devo prima sentire che là dove vado sarò custodita. Nella vita credo di aver fatto scelte forti, ho lasciato il nido di casa che ero giovanissima e nello sport sono andata spesso controcorrente.
Tant’è che, dopo, sono stata presto dimenticata».
Che cosa significa?
«Che non mi è stato dato ciò che credo meritassi. Ma non ne voglio più parlare, sono fuori da tutto ormai, ho lasciato anche il comitato regionale veneto, tanto si trattava per lo più di presenziare a una gara qui e l’altra là».
È vero che avrebbe voluto diventare ballerina?
«No, non sono mai andata oltre il saggio finale di danza classica alle scuole elementari».
Quando ha scoperto l’atletica leggera?
«Alle medie, in palestra. Venne un istruttore della Federazione a proporci una sorta di stage. Non sapevo nemmeno che cosa fosse l’atletica, ma per un gruppetto di noi ragazze quell’occasione significava soprattutto avere l’opportunità di uscire dal recinto delle famiglie, di assaporare il profumo della libertà. Così cominciai con la corsa campestre».
Chi fu a intuire le sue doti di saltatrice in alto?
«Walter Bragagnolo, il mio maestro storico che purtroppo non c’è più. Mi allenavo una o due volte la settimana. Prima del Fosbury si saltava a forbice, noi lo chiamavamo all’italiana, la pista di lancio era in terra, la buca di caduta era di sabbia, l’asticella era di ferro. Prendevo delle botte terribili, tornavo a casa piena di lividi viola sulle gambe, sulle braccia e nella schiena, ma Walter mi incoraggiava: hai visto, tu sei una che in cinque minuti ha imparato a saltare».
Fu subito un successo?
«Un metro e venticinque, record nazionale della categoria ragazzi».
Le medaglie più belle?
«Naturalmente l’oro alle Olimpiadi di Mosca, ma anche la vittoria agli Europei di Praga e soprattutto l’argento olimpico dell’84 a Los Angeles. Avevo il tendine d’Achille destro, quello del piede di stacco, che mi faceva impazzire per il dolore e dunque il mio doveva essere una sorta di viaggio premio, invece l’essere stata scelta come portabandiera della squadra italiana mi diede qualche energia in più. Fu un risultato di cui sono molto orgogliosa».
Che cosa le fece capire che
stava per giungere il giorno del ritiro?
«Gli acciacchi fisici, il tempo che scorreva come acqua tra le dita e non poteva starci dentro solo il salto in alto. Ho pensato che c’erano altri motivi per cui vivere e a tutto ciò che rischiavo di perdermi. Avevo fatto il possibile, era ora di scendere dalla cima della montagna».
Due anni fa disse al nostro Gianni Mura che si riconosceva nella frase di una canzone di Francesco De Gregori: "L’Italia che lavora e quella che resiste".
«Sì, perché all’io preferisco il noi.
Perché non mi affeziono ai tempi della gloria e apprezzo chi raggiunge i traguardi con la fatica e il sudore, senza chiedere favori a nessuno. Perché ho insegnato a mio figlio Roberto, che oggi ha 31 anni e lavora in una concessionaria di automobili a Verona, a scegliere la semplicità. Perché magari sembrerò ingenua ma spero che Dio non sia una grande bufala e che ci sia concesso dopo il passaggio terreno di ricongiungere l’anima con quelle delle persone alle quali abbiamo voluto bene».
Che cosa ha dato la campionessa Sara Simeoni alle donne?
«Una mano a uscire dalla fila, la lunghissima fila che cominciava dopo quella dei maschi che avevano la precedenza anche nello sport. Oggi le medaglie d’oro delle donne pesano quanto quelle degli uomini».
Si è rivista in tv, al Circolo degli anelli?
«Certo, con Alessandra De Stefano c’era un bel gruppo di giovani, dal trucco e parrucco ai tecnici di studio. La notte, al termine del programma, si andava tutti assieme in una trattoria di cucina messicana. Le confesso che mi sono divertita molto ma temo di essere apparsa al pubblico, come a me stessa, un po’ ridicola. Ora ho bisogno di pace, di fiori, boschi e passeggiate».
Ha tuttavia imparato con l’esperienza televisiva che un’altra vita è sempre possibile?
«Guardi, lo sapevo già. Se potessi tornare indietro non sono sicura che mi consegnerei di nuovo all’atletica. Da bambina sognavo di fare la naturalista o l’architetta. Sì, credo proprio che questa volta cambierei mestiere».