la Repubblica, 29 agosto 2021
Tagikistan, la strada della storia
DUSHANBE — Appena ampliata e riasfaltata dai cinesi, l’autostrada 384 è liscia come un tavolo da biliardo. Le macchine sfrecciano veloci, salvo poi dover bruscamente frenare per le tante mucche brade che attraversano la carreggiata. Ma un’ottantina di chilometri a sud della capitale del Tagikistan, Dushanbe, dove i lavori delle imprese di Pechino non sono ancora iniziati, la strada si restringe e sul suo manto si aprono buche profonde come tombe. Lì, l’A384 è rimasta identica a come la percorsero i carri armati sovietici nel 1979, quando Mosca invase l’Afghanistan per sostenere a Kabul i comunisti di Babrak Karmal. L’Urss fu costretta a ritirare le sue truppe dieci anni dopo, come accade in questi giorni agli Stati Uniti, ma lo fece lasciandosi dietro un Paese devastato, esangue, funestato da una guerra che aveva prodotto più di un milione di morti. Quella sconfitta così ingloriosa per l’impero sovietico segnò anche la vittoria dei mujaheddin afghani, tra i quali, per coraggio e disciplina, già si distinguevano i futuri talebani.
Con le sue miserie e le sue violenze, l’invasione dell’Armata rossa aveva precipitato l’Afghanistan in una guerra lunghissima, di cui ancora non si vede la fine. E pensare che l’allora primo segretario del Pcus, Leonid Breznev, si diceva certo di risolvere le faccende afghane con una blitzkrieg, una guerra lampo. Decise di intervenire per sedare una rissa tra “compagni”, e cioè tra i comunisti della fazione Parsham (bandiera), capeggiata da Karmal, e quelli della fazione Khalq (popolo) di Amin, che fu poi fucilato dagli agenti del Cremlino.
Dal Tagikistan e dall’Uzbekistan, all’epoca entrambe repubbliche socialiste sovietiche, Breznev inviò inizialmente qualche migliaio di uomini, che nel corso degli anni, man mano che s’irrobustiva la resistenza afghana, diventarono più di centomila. Molti di questi attraversarono il ponte sul fiume Panj, che porta direttamente nella provincia afghana di Kunduz. È qui che finisce l’A348, dopo aver costeggiato l’ubertosa valle di Komsomol, ancora oggi celebre per il suo pregiato cotone e per le sue piccole e zuccherine albicocche. Si potrebbe dire che la storia recente dell’Afghanistan è cominciata su quest’autostrada nel sud del Tagikistan, che oggi percorreranno in senso inverso i profughi che scappano dal nuovo regime.
Le conseguenze dell’invasione russa furono drammatiche. Quasi tre milioni di afghani si rifugiarono in Pakistan, a ridosso del confine, mentre altri emigrarono verso l’Iran dell’ayatollah Khomeini. Un quarto della popolazione, che contava 15 milioni di persone, fuggì con l’arrivo degli sharavi, come venivano chiamati i sovietici in persiano. Benché divisa tra fondamentalisti religiosi e tradizionalisti, religiosi anch’essi ma con mire politiche meno panislamiche, la resistenza trasformò la guerra lampo voluta da Breznev in guerriglia cronica. Tanto che i generali sovietici furono costretti a cambiare tattica ricorrendo, con l’avvento di Andropov al potere, a mezzi più agili e leggeri e rafforzando le reclute ucraine e tagike con le teste di cuoio russe. Nel 1984, dopo la morte Andropov, al Cremlino subentrò Cernenko che per primo impiegò i bombardieri Tupolev- 16, apparentemente inscalfibili dall’inconsistente contraerea dei mujaheddin. Ma le bombe a grappolo che lasciavano cadere sull’Afghanistan non bastarono a sedare la rivolta islamica che s’andava creando contro “il despota comunista delle pianure” e contro l’invasore straniero.
Il regime pro-sovietico si stava rivelando disastroso anche perché per cambiare un sistema ancora ancorato al feudalismo medioevale si ricorse a metodi repressivi. A provocare la violenta resistenza delle campagne fu proprio la modernizzazione forzosa della società. E alle “empie” riforme imposte dal governo centrale, tra cui l’abolizione della sharia e il divieto dei matrimoni forzati, i capi tribù, i capi villaggio e i mullah risposero imbracciando il kalashnikov.
Babrack Karmal governò fino al 1986. A succedergli fu il trentanovenne Mohammed Najibullah, sposato con una donna della famiglia reale e leader politico ben voluto da Mosca. Ultimo dei satrapi comunisti afghani, fu il solo a capire quanto fossero inadeguate e inapplicabili in molte aeree del Paese le riforme volute dai suoi predecessori. Verso la fine del suo mandato, durato fino al 1992, rinunciò a trasformare l’Afghanistan e accordò maggior potere ai mullah. Ma questo non bastò a evitargli una morte orrenda per mano dei talebani, quando questi nel 1996 conquistarono per la prima volta Kabul. L’esecuzione di Najibullah fu il primo gesto simbolico degli studenti coranici, che lo evirarono, gli misero i genitali in bocca e lo trascinarono per strada legato a una jeep. Dopo averlo giustiziato con una pallottola, lo lasciarono appeso a un lampione nel centro di Kabul.
Allora, la classe politica comunista degli anni Ottanta aveva già perso ogni legittimità agli occhi degli afghani, perché considerata “infedele” e al soldo di Mosca. Lo stesso si potrebbe dire oggi dei presidenti “democratici” vicini agli americani, Hamid Karzai e Ashraf Ghani, colpevoli di aver ammassato fortune e di non esser riusciti a colmare quel vuoto ideologico che ancora divide le pianure dalle montagne e le città dalle campagne.