Specchio, 28 agosto 2021
Ritratto di Edward Norton
Il mio primo incontro con Ed Norton non fu affatto piacevole: lo incrociai alla prima di un suo film e tentai di fotografarlo senza farmene accorgere. Lui si rese conto immediatamente del mio maldestro tentativo e mi lanciò uno sguardo gelido, facendomi segno di smetterla con un gesto secco del braccio. Lo vidi allontanarsi scuotendo la testa, decisamente infastidito, ed evitai di incontrarlo per molto tempo, nonostante avessimo molti amici in comune. Ci siamo conosciuti molti anni dopo, grazie a Wes Anderson, e in seguito è venuto alla Festa del Cinema con Motherless Brooklyn, un noir che ha interpretato e diretto adattando il romanzo di Jonathan Lethem. Mi sono guardato bene dal ricordargli l’incidente, e da allora è nato un rapporto segnato dalla stima: ritengo che sia uno dei più interessanti ed eclettici attori contemporanei.
Lo avevo scoperto con Primal Fear, e poi con The People Vs. Larry Flint, diretto da Milos Forman, il quale mi disse: «Ho diretto molti grandi attori, ma Ed ha qualcosa di unico: un misto di forza e vulnerabilità con dei lampi di genio, o follia». Sono proprio gli aspetti che mi affascinano di questo artista, nato a Boston 52 anni fa con il nome di Edward Harrison Norton in una famiglia episcopaliana. Il padre era un marine che ha combattuto in Vietnam prima di diventare un attivista per l’ambiente e un consulente del presidente Carter, mentre la madre era una professoressa specializzata in Shakespeare, che ebbe una grande influenza nella sua carriera. Edward, così preferisce essere chiamato in privato, si è laureato in storia a Yale, e poi ha vissuto per un po’ in Giappone, prima di trasferirsi a New York per dedicarsi alla recitazione: era diventata la sua passione sin da quando i genitori lo avevano portato a vedere un musical tratto da Cenerentola. Dopo molti provini ha catturato l’attenzione di Edward Albee, che raccontò a tutti di avere scoperto un grande talento.
Grazie a Primal Fear ha vinto il Golden Globe e ottenuto la sua prima candidatura all’Oscar, cui farà seguito quella per American History X: nel primo caso interpreta uno psicopatico, nel secondo un violentissimo neonazista. A rivedere oggi queste due magnifiche interpretazioni, si rimane colpiti da come riesca a trasmettere disagio, paura e orrore senza perdere mai del tutto l’umanità. Il New Yorker arrivò a dire che in American History X Norton attribuisce al personaggio una «seducente ambiguità» e lui commentò: «Ho sempre ritenuto che la recitazione sia un atto di empatia, che non è necessariamente simpatia. Cerchi di entrare all’interno di una realtà emotiva, tentando di capirla in modo da poterla rappresentare». Il film ebbe una lavorazione travagliata e suscitò numerose controversie e lui chiosò: «Qualunque buon film, sia di narrazione che documentario, suscita domande».
Nel 2000 ha cominciato a dedicarsi anche alla regia, dimostrando di avere talento anche dietro la macchina da presa, alternando interpretazioni al servizio di autori come Spike Lee (La venticinquesima ora) Alejandro Inarritu (Birdman, grazie al quale ha ottenuto la terza candidatura all’Oscar), Woody Allen (Everyone says I love you) e Wes Anderson (Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel), a operazioni più commerciali. Ha fama di essere estremamente meticoloso e una sera mi spiegò che le sue ispirazioni da piccolo erano «Robert De Niro e Dustin Hoffmann: attori magnifici, e nello stesso tempo la dimostrazione che per affermarsi nella recitazione non è necessario essere troppo belli». In seguito ha aggiunto alla lista Al Pacino, spiegando che «la sua energia e il suo talento sono unici»: non è un caso che segua i canoni del Metodo, secondo gli insegnamenti di Terry Schreiber.
È un uomo molto esigente, e questo gli ha guadagnato la fama di essere difficile: quando gliene ho parlato, mi ha risposto con un proverbio francese: se hai carattere, per gli altri hai un brutto carattere. Quando venne scritturato da Julie Taymor per interpretare Nelson Rockefeller, ottenne di riscrivere personalmente le sue battute e altre parti della sceneggiatura, ricevendo lodi unanimi. Fece lo stesso con L’incredibile Hulk, generando tuttavia in questa occasione malumore all’interno della produzione. Parallelamente al lavoro nel cinema, ha continuato l’impegno del padre nell’ambiente, e si è dedicato a numerose attività filantropiche, sia per conto dell’Onu che in prima persona. Probabilmente uno dei ruoli che hanno segnato maggiormente la carriera è il personaggio interpretato in Fight Club, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk. Seguendo sempre gli insegnamenti del Metodo, ha preso lezioni di boxe e taekwondo e poi ha studiato come si fa il sapone. In quello stesso periodo ha recitato al fianco di due leggende come Marlon Brando e Robert De Niro in The Score, ma uno dei film più interessanti della sua carriera è certamente Everyone says I love you, il musical di Woody Allen nel quale canta e danza sapendo - come tutti gli altri interpreti - che non sono certamente quelli i punti di forza del proprio talento.
Ama enormemente New York, per il fatto di poter vivere in anonimato, ed è un convinto liberal, ma sostiene che le star devono essere attive in politica, ma con discrezione, altrimenti rischiano di attirare l’attenzione su se stesse: insieme a Bennett Miller ha prodotto un video in supporto di Barack Obama e poi ha dichiarato: «Mi ero quasi dimenticato di cosa possa significare essere orgogliosi del proprio governo». Come molti attori della sua generazione, ha diversificato sin dall’inizio della carriera i propri interessi, cercando di trovare un equilibrio tra ciò che è indispensabile fare per tenere in vita lo standard della propria carriera e ciò che invece si può evitare: detesta per esempio i red carpet, ma sa che alcuni sono inevitabili. Quando ne abbiamo parlato mi ha detto «la popolarità è la cugina del prestigio che va a letto con tutti, amico mio».