La Stampa, 28 agosto 2021
Breve biografia di Bebe Vio
Via la maschera, via la protesi e via pure il fioretto. Per un’istante Bebe Vio toglie tutto, butta arti, armi, ansie e paure e tiene solo l’oro e quello che è servito per arrivarci: una passione più forte della vita.
Ogni tanto le dicono che potrebbe morire e lei non lo fa, opporsi al destino è talento di pochissimi e non è certo virtù da atleti ma, non a caso, è nello sport che questa incredibile donna si esalta. La prima schermitrice senza braccio armato, di solito tira con una protesi inizialmente progettata da papà e realizzata nel laboratorio di Budrio, Bologna, un posto specializzato in meraviglie che ha costruito anche le gambe di Zanardi, un luogo dove si inventa quel che non esiste su disegni concepiti nei sogni. Quelli di Bebe Vio sono una sequenza infinita che parte dal successo olimpico, arrivato per la prima volta 5 anni fa e bissato ora in modo persino più assurdo. Nel 2016 si è messa a urlare ed è diventata lo spirito paralimpico per il mondo intero, stavolta si è messa a piangere per celebrare una resistenza oltre ogni limite.
A cinque anni ha scoperto la scherma, a undici ha perso braccia e gambe per una meningite fulminante e ha detto grazie: «Il 97 per cento delle persone colpite da questa malattia non ce la fa, io come posso non essere felice di aver pescato il 3 per cento buono?». Non è l’estremismo di chi è costretto a reinventarsi l’esistenza e deve per forza scegliere strade improbabili, è proprio il modo in cui lei mette insieme i giorni. Anche quando, 5 mesi prima della gara che aspettava per dare una forma alle ambizioni, rimane bloccata. Brutta infezione e le dicono «forse dovremo amputare». Ancora. «C’è il rischio di morire». Di nuovo. E allora via, Beatrice Vio si libera di tutto quello che non è necessario e lei più di chiunque altro sa quanto i desideri siano essenziali. Cambia la protesi, perde i pezzi, aggiusta la mira. Fa senza, ed è allenata a togliere e reimpostare. Dopo averla salvata le hanno reinsegnato ogni gesto da capo, senza più nessuna naturalezza. Una parete di maniglie per capire come aprire porte e finestre, una parete di dentifrici per educarsi alla normalità, mentre tutto potrebbe essere insopportabile e invece diventa un gioco. Ogni prova moltiplica le energie e ogni mattina è un tuffo nell’esperienza.
Lo stato passa protesi superate e non si parla di atleti, ma di quotidianità. Lei ha una famiglia squadra che ha immaginato esigenze e calcolato bisogni. Sua madre ha assemblato le «gambe ciabatte», da mettere in casa, senza protezioni e guaine, solo per muoversi senza carrozzina quando serve: «Per andare a fare la doccia». Vio possiede un paio di gambe con i tacchi, le ha indossate alla Casa Bianca da dove è uscita con un selfie in compagnia di Obama. Con i presidenti ha una certa familiarità, chiama Mattarella «Sergione».
Esagera perché trabocca di progetti e si vede presidente del Coni tra una quindicina di anni. Si immagina nel futuro con nuove protesi, sempre più elaborate, di cui però potrà fare a meno quando arriva al dunque. Quando resta sola con quello che conta, quando guarda in faccia l’obbiettivo e per un attimo pure lei, trascinatrice, esempio, icona, tanto consapevole di essere punto di riferimento da non ricordare la fatica e cancellare le angosce, vede l’ombra della tristezza e la infilza. Intuisce il profilo della sconfitta e la stende.
Lo ha fatto sulla pedana di Tokyo contro la stessa avversaria cinese di cinque anni prima, una rivale che tira con il suo braccio contro una che non lo ha. Ma con chi si è preso il tre per cento buono nella scommessa con l’aldilà non si fanno pronostici. Con lei non si possono contare le probabilità, si può solo contare sul suo carattere che fin da ora la spinge a guardare molto lontano, a cariche politiche con cui pensa di rivoluzionare lo stato delle cose e mescolare lo sport paralampico a quello olimpico per scambiarsi le competenze e sovvertire i limiti: «Se sembra impossibile si può fare. Due volte», lo ha scritto su Instagram appena scesa dall’ennesimo podio. Dopo essersi messa piedi e mani, dopo aver ripreso quasi tutti i pezzi e agitato la medaglia vicino alle orecchie «vediamo se suona». Se è magia o realtà.
È tutto vero e lei ha fatto tutto da sola, per vincere soffrendo si è disfatta della tecnologia, si è fidata di se stessa: di un cuore che pompa coraggio e un cervello che lo traduce in semplicità. Di un corpo perfetto.