La Stampa, 28 agosto 2021
Scandalosa "Primavera" di Stravinskij
Igor Stravinskij non si aspettava il putiferio che sarebbe successo. «Per strano che possa sembrare, non ne avevo avuto sentore», racconterà molti anni dopo a Robert Craft. «I musicisti che avevano ascoltato le prove d’orchestra erano stati manifestamente interessati dalla musica, e non pareva probabile che lo spettacolo scenico suscitasse un tumulto».
In effetti, la prova generale, davanti a tutta la stampa parigina e ai colleghi, Debussy e Ravel in testa, si era svolta senza intoppi. E invece la prima del Sacre du Printemps, il 29 maggio 1913 al Théâtre des Champs-Elysées, scalò di prepotenza la hit parade dei peggiori fiaschi di tutti i tempi. Fu il terzo pannello del trittico di scandali teatrali parigini, alla pari della «battaglia di Hernani» alla Comédie-Française, il 25 febbraio 1830, e al debutto del Tannhäuser all’Opéra, il 13 marzo 1861. Dopo Hugo e Wagner, toccava a Stravinskij la dubbia palma di martire dei filistei e della genialità incompresa.
Stravinskij a un balletto sulla Russia pagana pensava da tempo, almeno dal 1910, quando a Pietroburgo lavorava all’Uccello di fuoco. «Un giorno, in modo assolutamente inatteso», scrive nelle Chroniques, «giacché la mia mente era occupata da cose affatto diverse, intravidi nell’immaginazione lo spettacolo di un grande rito sacro pagano: i vecchi saggi, seduti in cerchio, osservano la danza di morte di una vergine che essi stanno sacrificando per propiziarsi il Dio della primavera» (fra parentesi, questo dimostra quanto sia sbagliata la tradizionale traduzione italiana del titolo. Non è la Sagra della primavera, ma la sua Consacrazione. In francese sacre è il termine che si usava per consacrare, appunto, i Re).
Per Stravinskij fu fondamentale, molto più di quanto ammetta nelle sue memorie, la collaborazione con Nikolaj Roerich, il pittore che disegnò le scene e i costumi della première e che era un grande esperto della Russia primitiva. Per vederlo, nel luglio dell’11, Stravinskij si fece invitare nella tenuta della principessa Teniševa, grande collezionista di arte popolare, vicino a Smolensk. Il viaggio fu avventuroso. Sempre Stravinskij: «Raggiunsi Brest-Litovsk, e scoprii che avrei dovuto aspettare due giorni il prossimo treno per Smolensk. Corruppi perciò il macchinista di un treno merci perché mi lasciasse viaggiare in un carro bestiame, dove mi trovai solo a tu per tu con un toro». Non fu incornato e tornò a casa con lo scenario completo del futuro Sacre.
Il 17 novembre 1912, a Clarens, in Svizzera, fu terminata la composizione («Ricordo bene il giorno perché soffrivo per un feroce mal di denti»), ma per il debutto si dovettero aspettare sei mesi perché i Ballets Russes di Djagilev erano sempre in tournée. Come il Dio della Russia pagana volle, si arrivò alla prima. E fu subito tragedia. Colpa anche di Djagilev, che aveva riempito i palchi di proscenio di una claque prezzolata i cui applausi scatenarono una reazione uguale e contraria. Ma già le prime battute del Preludio suscitarono battute ironiche e risate. Quando il sipario si alzò su un gruppo di danzatrici dalle lunghe trecce con le gambe a «X» si scatenò l’inferno. Il resto è notissimo. Stravinskij, che sedeva nella poltrona numero 111 di quarta fila, si alzò e si precipitò dietro le quinte, non prima di aver ascoltato le reazioni egualmente inferocite di sostenitori e avversari: «Alle mie spalle si levarono grida di: “Ta gueule!” (invettiva intraducibile e non lusinghiera, ndr). Udii Florent Schmitt urlare: “Taisez-vous, grues du seizième!”; le “grues” del sedicesimo arrondissement erano le prostitute più eleganti di Parigi». Intanto nel retroscena Djagilev ordinava agli elettricisti di spegnere e accendere le luci, mentre Nižinskij, il coreografo, stava in piedi su una sedia e gridava numeri ai ballerini nel disperato tentativo di non far perdere loro il tempo, poiché il baccano era tale che non sentivano più l’orchestra. In sala ci furono grida, urla, risate, mentre gli spettatori si scambiavano insulti e addirittura sfide a duello. L’unico a non perdere la testa fu Pierre Monteaux, che dirigeva «apparentemente impervio e impassibile come un coccodrillo» (sempre Stravinskij).
In Le Coq et l’Arlequin, Cocteau raccontò di essere andato dopo il fiasco al Bois de Boulogne con Stravinskij, Djagilev e Nižinskij. Lì Djagilev avrebbe pianto recitando sommessamente dei versi di Puskin. Fantasie. Secondo Stravinskij, il solo commento di Djagilev fu: «Esattamente quel che volevo». Già. Ci sono dei «succès de scandale» che valgono più dei successi veri.
Secondo Stravinskij, la colpa del disastro fu principalmente di Nižinskij: «La sua ignoranza delle più elementari nozioni della musica era sconcertante. Il poveraccio non sapeva né leggere la musica né suonare alcuno strumento. Conto fino a quaranta mentre suoni, mi diceva, e vedremo dove ci troviamo. Non capiva che, se anche a un certo punto ci trovavamo insieme, questo non voleva dire che fossimo stati insieme fin lì». Ma certo anche la musica era difficile, specie per il pubblico del balletto. E tuttavia vale la pena di citare André Boucourechliev: «Il fracasso e il furore potevano prodursi soltanto nell’ambito di una comunicazione già instaurata, e ben instaurata: l’ambito, se non la causa, è costituito dal successo di Stravinskij presso un pubblico che fino ad allora lo ha pienamente accettato. Se questo pubblico ha reagito violentemente alla Sagra, è perché era disturbato nelle proprie abitudini da elementi di un linguaggio musicale certamente poco familiari e perfino brutali, ma che, per respingerli, era in grado di comprendere e di valutare. Passato questo stadio della comunicazione (ancora preservato nel caso della Sagra), quando un linguaggio risulta totalmente incompreso non accade più nulla; è il caso di Webern: non fece mai scandalo perché la novità del suo discorso si collocava per il pubblico al di là del valutabile».
Appunto: ecco cosa resta davvero, della svolta del Sacre. Non lo scandalo di un genio incompreso e poi pienamente riconosciuto, e fin dalla prima esecuzione concertistica del pezzo, ma della spettacolare cesura fra autore e fruitore. Altre ce n’erano state prima, molte di più ce ne saranno poi: così clamorose, mai. Il Novecento della musica «incomprensibile» inizia lì. Fra la creazione e la possibilità del pubblico di apprezzarla si apriva una crepa che sarebbe diventata prima un fosso e poi un abisso. Ne stiamo risalendo soltanto adesso (forse).