La Stampa, 28 agosto 2021
Afghanistan, la folla prende d’assalto le banche
La folla che premeva ai tre ingressi principali dell’aeroporto Hamid Karzai di Kabul non c’è più. Paura di altri attentati come quello di venerdì. E la fine delle speranze di potersi imbarcare su un volo. I Paesi europei hanno terminato il ponte aereo, americani e britannici sono concentrati sull’evacuazione delle proprie truppe. Il ministro dell’Informazione, Zabihullah Mujahid, ha confermato che i taleban controllano gli accessi anche se entreranno nello scalo «dopo il 31 agosto», e che «il 93-94 per cento» della capitale è nelle loro mani. Ma altre file e folle si formano in città, questa volta per sopravvivere. Per ritirare i soldi, finché ci sono, dalle banche. E fare scorta di cibo. La gestione dell’economia è ancora allo sbando. Neppure i guerriglieri in sandali e turbante si aspettavano di entrare a Kabul prima che il ritiro delle truppe Nato fosse completato. I più ottimisti contavano di prenderla «in autunno», per evitare le nevicate invernali che rendono impossibili operazioni su larga scala. In ogni caso la Kabul del 2021 non è quella del 1996. Ha più del doppio degli abitanti, quasi cinque milioni. E importa quasi tutto il necessario. La gente si è abituata a comperare prodotti europei e americani nei grandi centri commerciali che sono sorti come funghi, e a pagare con le carte di credito.
Il settore finanziario, inesistente ai tempi del primo Emirato del mullah Omar, è il più colpito. Lo sviluppo negli ultimi vent’anni è stato formidabile ma è dipeso da un afflusso costante di aiuti esteri, pari al 42 per cento del Pil. Le riserve della Banca centrale, nove miliardi di dollari, notevoli per un prodotto lordo pari a 70 miliardi, sono custodite per il 99,8 per cento in istituti statunitensi, inaccessibili. Da quando i Taleban sono entrati in città, il 15 agosto, è tutto bloccato. Gli sportelli hanno chiuso uno dopo l’altro, e così i cambisti. Moltissimi abitanti in città hanno cercato di convertire i loro risparmi in dollari, anche nella prospettiva di fuggire, e adesso si ritrovano senza valuta forte, né locale. Il cambio di 80 afghani per un biglietto verde, quasi fisso da un paio d’anni, è schizzato prima a 90, poi è diventato impossibile cambiare. Ieri centinaia di persone si sono radunate davanti alle sedi principali delle banche e hanno chiesto che gli sportelli venissero riaperti. Servono contanti, e subito, perché lo spettro è quello della fame. Un rapporto dell’Onu ha avvertito che a causa della crisi e della siccità eccezionale sette milioni di persone, in gran parte nelle campagne, sono «a rischio alimentare». I taleban hanno però deciso di aprire lo stesso la diga sul fiume Helmand, nel Sud, e far affluire acqua all’Iran, ancora più assetato.
La decisione si spiega con le forniture di carburanti e gas da parte di Teheran, in base agli accordi del 2015 fra il gruppo jihadista e il comandante dei Pasdaran Qasseim Soleimani. L’intesa doveva garantire protezione alla minoranza sciita Hazara, un quinto della popolazione, ed evitare altri massacri come quello del 1998. Ma a credere nei «nuovi taleban» è tutta la dirigenza iraniana, convinta che siano diversi dai gruppi «takfiri», come Al-Qaeda e soprattutto l’Isis, e che i punti in comune, su tutti l’odio per gli americani, abbiamo la meglio sulle differenze dottrinali fra sciiti e sunniti. La “scommessa” sugli studenti barbuti rischia però di avere anche conseguenze negative. Senza più dollari, come pagheranno petrolio e metano? La prospettiva è quella di un crollo verticale dell’economia e pure del contrabbando che in questi vent’anni ha fatto affluire valuta forte nelle casse iraniane. Il mullah Baradar e l’emiro Haibatullah dispongono di miliziani temibili, anche se incapaci di mantenere l’ordine pubblico, come si è visto all’aeroporto. Ma non hanno alcuna classe dirigente per gestire un Paese moderno.