il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2021
Claudio Amendola ricorda il padre Ferruccio
Basta chiudere gli occhi, a volte non serve neanche vedere la registrazione. Certe frasi, certe intonazioni sono nella storia del cinema, galleggiano nella nostra testa, vivono autonomamente; superano il significato e diventano significante. Il “no” di Al Pacino alla fine del Padrino, la vocina stridula di Hoffman in Tootsie, i tempi di De Niro in C’era una volta in America hanno tutti in comune un “grazie”.
Un grazie a Ferruccio Amendola.
Il 3 settembre di vent’anni fa moriva il più grande tra i doppiatori e c’è un’immagine, questa volta sì, per raccontare come lo stesso De Niro giudicava la sua voce italiana: anno 1991, Telegatti, sul palco sale l’attore statunitense e dopo di lui Ferruccio Amendola. Amendola si posiziona un passo dietro, come a dire non sono io il protagonista. De Niro quel passo lo annulla.
In platea c’era Claudio Amendola e gli occhi estasiati sono quelli di un figlio orgoglioso: “È stato un momento di gratificazione, il riconoscimento che papà ha sempre avuto dal pubblico, dal lavoro, dal successo; ma trovarsi lì, insieme all’attore che preferiva, a sua volta rispettoso con lui, mi ha emozionato. Sapevo cosa voleva dire”.
C’era un rapporto tra De Niro e suo padre?
Pochissime occasioni: credo l’abbia incontrato solo una volta, così come con Stallone; (ci pensa) oggi dal doppiaggio c’è una gratificazione maggiore, anche grazie ai cartoni che danno visibilità alla voce, ma un tempo tutto finiva con la sala. Quella generazione di grandi doppiatori non ha ricevuto indietro quanto ha dato agli attori statunitensi.
Cioè?
Spesso avevano e hanno delle voci stridule, scollate dalla loro fisicità; mentre i nostri doppiatori, i colleghi di papà, i miei zii…
Zii?
Per me erano tutti parenti: il sabato sera si ritrovavano a casa nostra e noi figli stavamo insieme: sei, sette uomini non bellissimi, ma con delle voci meravigliose.
Luca Ward racconta: “Al bar fermavano Ferruccio per fargli dire ‘Sei solo chiacchiere e distintivo’”.
Quando era con me siamo andati oltre, ed era un continuo (sorride); un caro amico, ai tempi del liceo, mi ha rotto le palle per mesi e mesi, solo per farsi mandare a quel paese da papà.
Ci è riuscito?
Una sera, sfinito, gli chiedo il favore: prendo la cornetta, compongo il numero e passo il telefono a mio padre. E a quel punto inizia (voce profonda, tempi perfetti): “Vaffanculo, fanculo, vaffanculo”
L’apoteosi.
Il mio amico impazzito di gioia; (ora ride) aggiungo tutti quelli che gli chiedevano di incidere il messaggio della segreteria telefonica. (pausa) Anche io, poi mi sono vergognato e l’ho cancellato.
Come cancellato?
Non ho un buon rapporto con i cimeli, non amo neanche le foto: sono un attore e mi vedo là e pure papà lo vedo e lo sento là (intende sullo schermo).
Suo padre che attore era?
Bravo e dotato di rigore e abnegazione, quella che oggi definiamo professionalità; per lui il lavoro era l’aspetto più serio della vita, più serio della famiglia e forse perché era parte di quella generazione uscita dalla guerra, che aveva conosciuto la fame e attraverso l’impegno aveva calmato i crampi dello stomaco.
Torniamo a lui attore.
Come dicevo, bravo. Ma con un viso da caratterista in un momento in cui il cinema era per i belli, per i Cary Grant o i Marcello Mastroianni; e poi possedeva una voce considerata sgraziata, quindi i suoi ruoli erano quasi sempre da sfigato e pure nel doppiaggio gli assegnavano le parti da “apri porta”, tipo: “È arrivata la marchesa, l’aspetta di là” o “buongiorno” e “buonasera”. A quel tempo ai protagonisti era richiesta una sonorità pulita con la dizione perfetta.
Mentre Ferruccio Amendola…
Coltivava l’Armageddon della recitazione e del doppiaggio; (pausa) ha divelto la tradizione e le abitudini ed è stato straordinario nel capire il valore del suo strumento. Con lui non si parla di gola, ma di strumento.
È una dote.
È stato un attore bambino, è nato in palcoscenico.
Non è una metafora.
No, è di Torino perché mia nonna era lì per una tournée e lo hanno chiamato Ferruccio perché l’impresario promise un regalo se gli avessero dato il suo nome.
Il regalo è arrivato?
Macché! E di questo in famiglia si è riso molto; però era un predestinato: a casa nostra tutti erano attori, registi, sceneggiatori o teatranti, e questa tradizione risale a generazioni e generazioni, quando ancora si recitava in piedi sulle botti di legno; ogni tanto vedo dei film dove appare mia zia Gina Amendola: è una delle tre suore ne I soliti ignoti.
Quindi suo padre…
A 17 anni è stato costretto a scegliere: o la carriera da calciatore o quella d’attore; era una grandissima mezz’ala sinistra.
Ci ha giocato insieme?
Eccome, fino a 65 anni mi fregava con dei tunnel (passare la palla tra le gambe).
Insomma, la scelta.
Dentro casa gli indicarono la strada: “Ferrù, ma ‘ndo vai, qui c’è la tournée, la famiglia e poi parti con Walter Chiari”.
Le raccontava la sua vita?
Soprattutto i ricordi di guerra, della fame, insomma della sua gioventù.
Come mai?
Era una forma d’insegnamento, e poi per soddisfare la mia curiosità: quel periodo mi è sempre interessato; (silenzio) non parlava volentieri di politica: era certamente di sinistra, ma riservato, anche con me. E non approvava il mio schierarmi.
Anche su quel palco con De Niro, un passo indietro.
Era riservatissimo, al limite del chiuso, con gran senso del pudore. Poi nel suo ambiente diventava maschio alfa.
Il doppiaggio aiuta a celare.
Toglie la parte dell’esposizione, l’obbligo a diventare personaggio, ma con il passare del tempo quella parte aveva imparato a gestirla. Ricordo dei siparietti molto divertenti con Maurizio al Costanzo Show negli ultimi anni, grazie alle serie televisive, il successo di Ferruccio-volto lo ha gratificato.
Suo padre ha rivelato: “La mia voce la devo a 40 sigarette al giorno, al tennis e a non asciugarmi dopo la doccia”.
È vero, e non solo i capelli: non utilizzava proprio l’asciugamano, si vestiva mentre ancora gocciolava; (pausa) le sigarette lo hanno aiutato, poi però l’hanno ucciso; (altra pausa) era un accanito fumatore ed è l’unico aspetto che gli rimprovero, perché lo sono diventato pure io.
Inevitabile…
Sono sempre stato seduto all’angolo del tavolo dove giocava a carte, o nelle salette dei circoli del tennis, o al cinema quando la sigaretta non era proibita. E si fumava, fumava…
Non ha mai smesso.
Sì, nel giorno in cui è morta sua madre: ma aveva 59 anni ed era troppo tardi.
Suo padre lo hanno accusato di doppiare troppi personaggi.
Lo chiamavano, era il più bravo; comunque li differenziava, come un musicista toccava diversi tasti dello strumento e li conoscevo sulla mia pelle.
Tradotto?
A seconda della cazzata che avevo combinato, mi sgridava con la voce di Hoffman o di De Niro; se la cazzata era veramente grossa allora riconoscevo Stallone.
Riusciva a restare serio?
Trattenermi dal ridere era l’aspetto più complicato.
Tomas Milian ha sostenuto che lei e suo padre non lo sopportavate.
(Pausa, è stupito e dispiaciuto) Ma perché? È vero? Non lo sapevo, sono basito. Papà era grato e innamorato di Tomas, si divertiva tantissimo, e poi con lui ha guadagnato infinitamente di più rispetto alle pellicole con gli attori statunitensi.
Lei ha dichiarato che di suo padre ama i western.
Perché dirigeva il doppiaggio di quasi tutti i film con Bud Spencer e Terence Hill, ed erano suoi gli effetti delle risse. Da solo. Quindi li riconosco sempre. E non sono semplici: c’è dietro un difficilissimo lavoro di apnea.
E torniamo al concetto di strumento…
Quando ho girato Soldati di Marco Risi, in una scena scappo dalla caserma e corro sotto la pioggia: quegli attimi andavano doppiati. Così entro in sala, inizio, e poco dopo svengo per iperventilazione. Alla fine è arrivato papà e ci ha pensato lui.
Qual è il film che ama più di suo padre come attore?
La grande guerra, ma solo perché è in assoluto uno dei miei preferiti.
Come doppiatore?
(Silenzio) Porca miseria, è complicatissimo. Credo Il Padrino: lì è stato grande, e per quel “no” finale alla moglie ha ricevuto centinaia di lettere; oppure i monologhi di Al Pacino in Giustizia per tutti, o De Niro quando dice “un colpo solo, un colpo solo” ne Il cacciatore; (riflette) aggiungo Hoffman in Tootsie.
Tootsie con quella vocina…
Ricordo che aveva già chiuso tre turni di doppiaggio, poi una sera torna a casa e lo vedo strano: “Non sono contento, ho sbagliato”. Il giorno dopo ha ricominciato da capo.
Perfezionista.
Era realmente un lavoratore serio e con i colleghi è stato terribile: ho assistito a cazziate e urla solo se uno dei giovani era arrivato con cinque minuti di ritardo, o se tra un turno e l’altro vedeva poca serietà. Poteva cacciarli. Per questo stava sulle palle a tanti: con lui non ne passava mezza. E aveva ragione: non è un mestiere per tutti.
Non ha citato C’era una volta in America.
Alt. È il mio film preferito e papà mette i brividi quando cambia voce e diventa anziano. “Sono andato a letto presto” è una di quelle frasi che gli ho chiesto di ripetere un milione di volte. Magari lo chiamavo al telefono: “Che hai fatto ieri, papà?” “No, basta! Che palle!” “E dai… che hai fatto?” “Sono andato a letto presto” “Grazie, ciao”.
Quando è morto cosa l’ha stupita?
La folla fuori dalla chiesa; lì ho pensato: “Mamma mia Ferruccio, cosa hai combinato”. Eppure lo sapevo, perché già da anni mi fermavano e ogni volta mi ripetevano lo stesso concetto: “Sei bravo, molto bravo, però tu padre…”
E…
Questa frase spero non finisca mai, mi accompagna da sempre e lo dico pure io: perché papà era superbo, un genio del nostro mestiere. E sono tanto orgoglioso di lui.