Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2021
A tavola con Letizia Battaglia
«Quando ero una bambina, il mondo per me era sereno. Non conoscevo il male. Ero libera fino alla mia radice. Vivevamo a Trieste. Con la mia bicicletta giravo, indisturbata, per la città. Uscivo alla mattina e tornavo alla sera. La mia famiglia si trasferì a Palermo. Avevo dieci anni. Un giorno presi la bicicletta. Era naturale che mantenessi le mie abitudini. In Via Villafranca, una traversa di Via Libertà, un signore aprì l’impermeabile e mi mostrò il suo sesso. Io scappai a casa. Ero turbata. Mio padre Cesare e mia madre Angela, in quella Sicilia degli anni 40, decisero che, semplicemente, non dovevo più uscire. Per me fu una doppia violenza. Alla prima si era aggiunta la seconda: la perdita della libertà. Ho lavorato a lungo sulla mia interiorità insieme allo psicanalista Francesco Corrao. Con l’analisi individuale e con quella esperienziale di gruppo ho molto riflettuto su chi sono. E penso che il mio interesse come fotografa per le storie e le esistenze delle bambine e delle ragazze risalga proprio a quell’episodio e alla reazione dei miei genitori: non miro tanto all’età dell’innocenza, cerco soprattutto l’età della libertà. Le bambine e le ragazze che ritraggo non sono belle e paffute, ma magre ed emaciate. Come ero io allora. Cerco in loro uno sguardo non furbo e predatore, ma pulito e spirituale».
Letizia Battaglia assomiglia ad una bambina. Più invecchia, più il volto le diventa tondo. Le rughe sembrano levigate dal dolore e dall’amore, dalla noia e dalla passione, dagli errori e dai progetti. Siamo a tavola da Gigi Mangia, nel centro di Palermo, fra il Teatro Massimo e il Politeama. I capelli sono di un fucsia che trascende nel rosa: «Le mie pronipoti, Vittoria e Martina, due gemelle di sei anni, desidererebbero tanto avere i capelli rosa della bisnonna», racconta sorridendo. Ma non è tanto il colore dei capelli: sono proprio la luce degli occhi e l’architettura della faccia di Letizia Battaglia a suggerire la sua progressiva trasformazione in una bambina. La canicola estiva sconsiglia di pranzare fuori. Meglio accomodarsi all’interno. Gigi Mangia la accoglie come una regina. Non si tratta soltanto di educazione barocca siciliana. È che Letizia Battaglia, per Palermo e dunque per l’Italia, rappresenta tante cose.
Esiste la sua storia privata. Un profilo di donna segnato da strappi e ricuciture, nella perenne ricerca dell’abbandono delle costrizioni sociali e dell’ottenimento di forme dolorose di libertà: «Mi sono sposata a 16 anni con Franco, che ne aveva 23. Lui non voleva né che studiassi né che lavorassi. Senza il suo consenso, iniziai a guadagnare qualcosa come rappresentante di prodotti per l’igiene intima. E, poi, in un giorno d’estate, entrai nella redazione dell’Ora, il quotidiano della sera di Palermo diretto da Vittorio Nisticò, per propormi come collaboratrice. Era poco prima di Ferragosto. I giornalisti erano tutti in ferie. Nisticò fu ben felice di mettermi alla prova. Scrivevo e scattavo le foto, perché servivano entrambe le cose. Poco alla volta, capii che preferivo la seconda». Dopo la fine del matrimonio, i lunghi amori con i colleghi Franco Zecchin (specializzato in reportage) e Santi Caleca (focalizzato sul design). Il mondo che si dischiude con le tre figlie Cinzia, Shobha e Patrizia. La vita da bisnonna di Vittoria, Martina e Rosario. E, adesso, l’amicizia profonda con l’artista visuale Roberto Timperi.
Esiste la sua storia pubblica, la cui costruzione è complementare e coerente con la formazione della sua identità personale, a cui verrà dedicata una produzione di BB Film e La Sept per Rai Fiction, con la regia di Roberto Andò, che il 6 settembre inizierà a girare a Palermo 4 episodi da 50 minuti l’uno, in programma su Rai Uno nel 2022: le pozzanghere di sangue degli omicidi di Cosa Nostra («l’Ora era un giornale comunista, contrario alla corruzione politica e favorevole al contrasto duro alla mafia. I colleghi erano tutti anti-corruzione e anti-mafiosi, progressisti e democraticissimi. Ma quanto gli dava fastidio che una donna facesse la fotografa? E quanto si arrabbiavano quando glielo facevo notare? Per i giornalisti, i fotografi erano la Serie B. Figuriamoci cosa potesse essere una donna fotografa»), il mistero della quotidianità nascosta nei quartieri popolari di Palermo, le bambine e le ragazze con i loro destini individuali proiettati nella polvere del futuro, l’impegno politico ed amministrativo nella prima giunta di Leoluca Orlando, la nuova stagione segnata dalla sua ultima ricerca estetica, che consiste anche nella distruzione-ricostruzione-ricomposizione delle foto del suo archivio. Una sequenza e un intreccio biografico ricordati e ricostruiti da due volumi appena usciti: per Contrasto Volare alto e volare basso («l’ho fatto insieme a Goffredo Fofi, una delle persone a cui voglio più bene e che stimo di più») e per Einaudi, con Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia.
Gigi Mangia racconta – più che elencare – che cosa ha cucinato oggi. Lei sceglie gli spaghettoni di grano duro siciliano con ricci di mare. Io, invece, opto per le tagliatelle di grano tenero e uova con il pesto al basilico e il ragù di carote e zucchine. Da bere, Gigi consiglia un Pietra Nera di Marco De Bartoli, uno zibibbo secco di Pantelleria.
Ascoltare Letizia è come aprire una porta al cui interno c’è una altra porta, che dà a sua volta su una terza porta. Questo accade con chi – in maniera volontaria e consapevole oppure casuale e naturale – rappresenta con la sua forza artistica e la sua vocazione alla testimonianza estetica un punto di confluenza di secoli di storia. «Amo molto una mia foto che io chiamo dei due Cristi. Nella campagna di Palermo venne assassinato un uomo. Arrivammo di notte. I carabinieri accesero le luci dell’automobile, che illuminarono la scena. Vidi la sua faccia stravolta dalla morte. Gli si era alzata la maglia. Sul suo corpo, comparve un volto di Cristo tatuato. Allora, i tatuaggi li avevano i marinai e i carcerati». E, davvero, mentre lo racconta mi viene in mente tutta la linea della pittura italiana che congiunge l’opera di Caravaggio e i dipinti dell’“Officina Ferrarese”, con le parole sulla luce e sull’ombra di Roberto Longhi su «dove l’aria appena si abbuia». Intanto, mentre iniziamo a mangiare i primi e a bere il vino («io a pranzo bevo poco, ma ti faccio compagnia», dice), si avvicina con timidezza un cliente di Gigi Mangia: «Letizia, la posso salutare? Dio, come sono emozionato. Ho partecipato a un suo seminario e ho ascoltato le lezioni di Josef Koudelka al Centro Internazionale di Fotografia, quando lo guidava lei».
Il saluto affettuoso e riconoscente dell’ex allievo permette a Letizia di costruire la sua gerarchia concettuale: «Più di tutti mi piace Koudelka. Le mie foto hanno una data. E non soltanto perché molte sono nate dalla cronaca. Le sue sono sempre contemporanee. Sono fuori dal tempo. Ho una grande passione per la fotografia americana: Eugene Richards, Mary Ellen Mark, Sally Mann». Non so se le foto di Letizia Battaglia abbiano una data, come sostiene lei. Di sicuro, hanno tracciato con precisione una linea del tempo per questa città e per questo Paese, con la sua bellezza e le sue tragedie, la sua ragione e i suoi sentimenti. Questa linea del tempo è stata determinata sia dalle foto che Battaglia ha scattato («nei miei tre anni a Milano, prima che nel 1974 Nisticò mi richiamasse a Palermo, incontrai a una conferenza al Circolo Turati Pier Paolo Pasolini, ero timida, non mi avvicinai neppure, ma gli feci una foto in cui lui era triste e malinconico perché, mentre parlava, veniva contestato dagli operai in sala») sia da quelle che non ha scattato: «Andai in Via d’Amelio, quando ci fu l’attentato a Paolo Borsellino, ma non me la sentii di fotografare nulla. Due mesi prima, non avevo avuto la forza di andare nel cratere di Capaci. Ero corsa in ospedale, dove stavano portando Falcone e la moglie Francesca Morvillo. A Giovanni ogni tanto chiedevo di fare una foto in posa, ma lui no, mi diceva: “Letizia, non posso, meglio di no. Perché poi dicono che sono vanitoso”». Arriva Gigi Mangia. Ci porta il secondo: lei si trova dinnanzi un piatto di fichi conditi con formaggi freschi di capra; io, invece, ho scelto una rolata di agnello della piana di Vicari con patate al forno.
Le sue foto, almeno una volta, sono state spezzettate, sezionate e deformate dai processi degenerativi dei mezzi di comunicazione di massa e della rete. L’anno scorso la sua storia e la sua attività sono state stravolte, mistificate e deturpate: «Mi hanno ferito le polemiche sulle fotografie che ho fatto a Palermo per la campagna Lamborghini: tre ragazzine di otto, dodici e quindici anni, alla Vucciria. Ma come è possibile accusare me di averne dato una immagine ambigua e perversa, fino alla pedofilia? E, poi, di avere sfruttato l’ambientazione di quei quartieri?», si chiede più con stupore che con rabbia di fronte alla violenza ottusa e automatica, ignara di tutto e capace di autoalimentarsi che oggi può comporsi nella bolla dei social media.
Letizia invecchiando assomiglia sempre più a una bambina. Ma, in lei, non c’è nulla di infantile. Le sue furie sono precise. I suoi impulsi sono controllati. La sua fotografia – il percorso che da professionale si è fatto artistico – ha incanalato tutto il dolore che ha la luce cupa e l’ombra bianca del Mediterraneo. Ha quella capacità, che appartiene alla cultura siciliana, di superare la distinzione fra l’alto e il basso, le élite e l’oscuro volgo che nome non ha, in un punto di fusione estetica e civile fra il suo razionalismo tragico e l’illuminismo radicale del pensiero francese, che in questa parte d’Italia innerva libri e immagini, vite e destini in maniera nascostamente profonda. E, così, mentre beviamo insieme il caffè mi viene in mente la Eugénie Grandet di Balzac: «Quando una ragazza cresciuta comincia a vedere il sentimento della natura, sorride come sorrideva da bambina». Perché questo, per il troppo conoscere il mondo, capita a Letizia Battaglia, bambina di 86 anni.