Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2021
La stagione orribile della magistratura
A trent’anni dalla rivoluzione più atipica della storia moderna – fatta in costanza di democrazia e ad opera di uno dei poteri dello Stato – il “modello” italiano di rapporto tra rappresentanti e controllori inizia a denunciare pesanti segni di crisi e quasi sembra avvicinare la profezia dell’ex presidente della Repubblica (e quindi anche del Csm) Francesco Cossiga, secondo cui il ridimensionamento del potere della magistratura sarebbe iniziato «quando cominceranno ad arrestarsi tra di loro».
Più delle picconate di (una) parte della politica ininfluenti a fronte del sostegno popolare diffuso e manifesto, ha potuto però l’annus horribilis della magistratura, finita in una spirale di introspezione pubblica – se così si può definire – scaturita dal trojan installato nel cellulare di Luca Palamara, per un quinquennio il dominus della interminabile partita a scacchi tra poteri costituzionali, e proseguita con il redde rationem nella Procura della Repubblica di Milano, singolare nemesi storica alla vigilia del terzo decennale là dove tutto era iniziato.
E dove tutto ricomincerà a breve, considerato che tra poche settimane il Consiglio superiore della magistratura dovrà affrontare il nodo, nel frattempo diventato assai spinoso, della successione di Francesco Greco, il procuratore capo dell’«ufficio che vale un ministro e mezzo della Giustizia», nonché soprattutto l’anello di congiunzione e il filo conduttore di 30 anni di storia giudiziaria del Paese arrivato però al traguardo della pensione.
Non meno strategica sullo scacchiere delle nomine orchestrate dal Csm – per esplicita riserva costituzionale – è la questione romana, in cui la scelta del capo della Pr0cura («che vale almeno due ministri della giustizia», stando ai proverbi della politica postbellica) e già in passato al centro del “laboratorio Palamara”, è tornata alla casella di partenza per intervento del Tar prima e del Consiglio di Stato ad adiuvandum poi: nomina annullata per irregolarità del procedimento di valutazione dei candidati. Non proprio un bel biglietto da visita per chi delle regole è custode supremo e difensore sovrano, in forza della sempre citata Carta costituzionale.
Il caso Milano
Le (presunte) tangenti internazionali e i veleni tra toghe
Per riannodare i fili di una partita complicatissima, e che giocoforza coinvolge sotto vari profili i vertici e anzi l’assetto stesso del sistema Paese, è opportuno partire dalla fine, dalla tempesta cioè sull’ufficio giudiziario simbolo, quantomeno nell’immaginario universale, della gloriosa storia patria recente. Tempesta che ha un nome, più ancora che un titolo, nitido e breve come un hurricanestagionale: Eni.
Attorno e sulla società fondata da Enrico Mattei nel 1953 come Ente nazionale idrocarburi, convertita in Spa nel 1992 e di cui lo Stato controlla oggi poco più di un terzo del capitale sociale (aspetto non secondario nella tenzone), si gioca da 28 anni una delle partite giudiziarie più lunghe e più strategiche delle nuove ere repubblicane.
L’inizio fu la maxi tangente Enimont, la madre di tutte le inchieste e di tutti i processi dell’epoca di Mani Pulite (150 miliardi di lire, due terzi dei quali destinati al finanziamento illecito dei partiti della Prima repubblica) e terminato con un quaderno di condanne ai maggiorenti del tempo (ma anche con la tragedia del suicidio in carcere dell’allora presidente Gabriele Cagliari).
La vittoria schiacciante della giustizia, che transitava l’Italia in nuove stagioni politiche non meno turbolente, non bastò però a chiudere definitivamente la partita contro il colosso multinazionale dell’energia, soprattutto dopo che nel 2012 la legge 190 (Severino, governo Monti) apriva nuovi importanti varchi sulle indagini per corruzione internazionale (articolo 322-bis del Codice penale). Varchi sui quali si concentrò subito l’interesse investigativo della Procura di Milano, che innescò vari fronti di indagini da esposti di Ong e denominati in base ai Paesi e alle relative deboli democrazie dove si sarebbero consumati i nuovi reati di corruzione, resi punibili dall’allargata giurisdizione nazionale. Per alcuni, ovviamente di parte, nulla più che la versione aggiornata e corretta di quel rito ambrosiano che aveva contribuito a sovvertire la Prima repubblica.
Una partita durissima in ogni caso, con echi costanti sulla stampa nazionale e internazionale, ma che non ha portato – almeno fino alla vigilia dei fatti che qui interessano – lo stesso successo all’ufficio milanese. Soprattutto dopo che la stessa Corte d’Appello nella recente sentenza sull’inchiesta Nigeria ha confermato le assoluzioni con la formula più ampia del «fatto non sussiste», sottolineando didascalicamente che per sostenere la corruzione serve dimostrare il patto corruttivo, oltre alla violazione di norme imperative di legge.
Ed è comunque in questo contesto, evidentemente anche di valore simbolico, che si è consumato il contrasto tra toghe ambrosiane finito davanti al Csm e alla Procura di Brescia. Il casus belli è l’utilizzo di due dichiaranti-testimoni, da anni al centro del circo mediatico, Piero Amara e Vincenzo Armanna, il primo avvocato siracusano con incarichi professionali nella galassia Eni del recente passato (difese processuali di imputati per fatti siciliani), il secondo ex dipendente della stessa multinazionale, allontanato bruscamente a metà del decennio scorso e definito nel corso della discussione dell’appello un «avvelenatore di pozzi». Amara, dal canto suo, non vive il momento migliore della sua carriera: ha da scontare un cumulo di pene definitivo per tre anni e otto mesi e nelle more è stato raggiunto anche da un’ordinanza restrittiva del Gip di Potenza, dove la procura indaga per competenza su presunte manovre per la scelta dell’ex procuratore di Taranto (Capristo, caso Ilva).
Nella primavera del 2020 il pm milanese Paolo Storari sollecita la formale iscrizione relativa alle dichiarazioni di Piero Amara sulla cosidetta loggia Ungheria (massonica). La diversa opinione dei capi dell’ufficio spinge Storari a rivolgersi a Piercamillo Davigo, all’epoca membro del Csm. Proseguendo le indagini sulle dicharazioni, tra gli altri, anche di Vincenzo Armanna, Storari dispone accertamenti tecnici sulle chat del dichiarante testimone. È qui che si forma il guado tra le visioni strategiche della Procura perchè Storari, convinto della portata calunnatoria di una serie di dichiarazioni di Armanna e altri incardinate nel processo Eni, chiede gli arresti senza però ottenere il via libera dei suoi vertici. Richiesta riformulata ma ancora una volta non coltivata dalla Procura, che al contrario nell’appello alla sentenza Nigeria firmato dall’aggiunto Fabio De Pasquale torna a indicare l’ex dipendente Eni come testimone dei fatti incriminati. De Pasquale, nel frattempo, finisce indagato alla Procura di Brescia (competente sulle toghe milanesi) per occultamento di prove, insieme al suo capo Francesco Greco, segnalato per il presunto ritardo nell’iscrivere l’inchiesta (e gli indagati) sulla nebbiosa loggia Ungheria. Nelle more, e a termometro di una situazione incandescente, anche Storari finisce davanti al Csm con una proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale, procedimento che solleva una inusuale raccolta di firme a suo sostegno di 59 dei 64 colleghi pm di Milano e di un altro centinaio di magistrati, non solo del distretto milanese. Sullo sfondo di una conflittualità ormai vicina all’ingovernabilità, si agita lo spettro della manina che per due volte a distanza di mesi invia a due giornalisti le copie informali dei verbali degli interrogatori di Amara in cui si pennellava la loggia Ungheria. Nell’indagine amministrativa sul presunto “corvo” compare presto un’altra figura storica della magistratura milanese, quel Piercamillo Davigo che negli ultimi anni, e prima del recente pensionamento, aveva assunto un peso notevole nell’Anm prima e nel Csm poi. Davigo era stato informato sui verbali Ungheria da Storari in persona, che gli aveva chiesto un parere sull’imbarazzante impasse. Il mittente anonimo dei verbali Amara apocrifi sembrerebbe poi essere l’ ex segretaria di Davigo al Csm che, a sublimare un plot poco meno che romanzesco, sarebbe in rapporti d’amicizia con un imprenditore indagato nell’ambito del sistema Palamara (Fabrizio Centofanti) e stretto amico del medesimo magistrato oggi radiato. Il 3 agosto scorso, in ogni caso, il Csm ha respinto la richiesta di trasferimento e di modifica di funzioni a carico di Storari,
La successione
Nove in corsa per l’ufficio di rito ambrosiano
In questo scenario di conflittualità a tutto campo, il Csm dovrà a breve scegliere i nuovi vertici della Procura in una rosa di nove candidati, uno solo propriamente interno, Maurizio Romanelli, a capo del pool di magistrati anticorruzione e con esperienza di antiterrorismo e antimafia. Altri tre candidati conoscono per pregresso servizio i corridoi dell’ufficio giudiziario più famoso d’Italia: Luigi Orsi, oggi sostituto procuratore generale in Cassazione, il procuratore di Cremona Roberto Pellicano e il procuratore di Como Nicola Piacente. Gli esterni sono il procuratore di Bologna Giuseppe Amato, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola,tornato in corsa per Roma dopo gli annullamenti Tar Consiglio di Stato della nomina di Prestipino, il procuratore di La Spezia Antonio Patrono, oltre al procuratore di Pordenone Raffaele Tito e al procuratore aggiunto di Torino Cesare Parodi.
Lo scandalo nomine
Dall’Hotel Champagne all’esplosione del sistema Palamara
Ma il primo sassolino destinato a far deragliare il sistema era stato lanciato un paio di anni prima, quando nell’ambito di un’indagine rubricata come corruzione per la nomina (poi mai avvenuta) di Giancarlo Longo a capo della Procura di Gela – con i presunti buoni uffici di Piero Amara, figura ricorrente come si nota in queste dinamiche – il famoso trojan inoculato dalla procura di Perugia nel cellulare di Luca Palamara registra l’incontro all’Hotel Champagne. Qui l’8 maggio 2019 cinque magistrati del Csm si stanno incontrando poco prima di mezzanotte con Luca Palamara, con Cosimo Ferri (leader storico della corrente sindacale di Magistratura indipendente, dal 2013 distaccato in politica, prima sottosegretario alla giustizia in tre Governi successivi, poi deputato del Pd in quota renziana) e soprattutto con Luca Lotti, deputato Pd lui pure ma soprattutto braccio destro dell’ex premier Renzi. Oggetto dell’inusuale meeting, tenuto in una saletta riservata, la scelta del nuovo procuratore della Repubblica di Roma destinato a subentrare a Giuseppe Pignatone, giunto al pensionamento. L’accordo, come annota diligente la polizia giudiziaria in sala ascolto, va su Marcello Viola già procuratore generale a Firenze e considerato adatto alla poltrona, soprattutto gradito a quello che all’epoca veniva definito il giglio magico.
I riscontri alla scelta della posizione “che vale due ministri della giustizia”, scelta avvenuta in ambito e luoghi per nulla ortodossi, arrivano esattamente due settimane più tardi: il 23 maggio la Commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura va esattamente su Viola, con quattro voti su sei. Passa una settimana e, ben prima che il plenum deliberi la nomina, rendendola effettiva, all’alba del 30 maggio la polizia giudiziaria si presenta a casa di quello che da almeno quattro anni era l’ago della bilancia degli equilibri del sistema. Con la perquisizione dell’abitazione di Palamara la procura di Perugia mette le mani sul suo cellulare, già clonato dagli inquirenti dopo vari tentativi andati a vuoto, e soprattutto sulle chilometriche chat che affondano in anni addietro (sono state trascritte 60 mila pagine di atti giudiziari) e che aprono scenari in certo senso definitivi sulle logiche ormai unanimemente accettate nella costellazione in cui giustizia e politica si incontrano, e spesso si confondono in un gioco di specchi.
Mentre l’inchiesta su Palamara (corruzione) finisce di fatto qui – e culmina con la richiesta di rinvio a giudizio avallata dal Gup di Perugia il 22 luglio scorso – si apre invece il capitolo dei veleni in retrospettiva, anche perché nelle more del processo e nelle more dei giudizi amministrativi sulla sua posizione professionale (terminati con l’espulsione dall’Anm prima e con la destituzione dalla magistratura poi, diventata definitiva la scorsa settimana via Cassazione) Palamara ha aperto il libro dei ricordi nel libro intervista di Alessandro Sallusti sul Sistema, appunto
Così era il Sistema
Gli uffici direttivi assegnati in base all’appartenenza
Quello che rivela Palamara, disegnando per sè il ruolo anche autogratificante di evoluzionista del sistema, ma non certo d’inventore, è uno scenario molto politico della gestione del potere (cioè delle nomine) dentro le organizzazioni della magistratura, a cominciare dal Csm. Nulla di nuovo per chi segue e conosce da anni i delicati meccanismi della realpolitik in toga, ma rivelazioni scioccanti per quell’opinione pubblica che per lustri aveva visto nella magistratura testimoni adamantini delle regole, anche delle proprie soprattutto delle proprie.
Invece l’ambizione e l’ebbrezza da potere, come lui stesso confesserà, di un figlio d’arte (il padre magistrato scomparve prematuramente alla fine degli anni ’80) e la sua rovinosa caduta mettono in piazza, in senso letterale, l’inconfessabile regia che pone l’appartenenza davanti alla competenza e quasi sempre davanti al merito. Un sistema che alla fine ragiona e si muove esattamente come la politica, in cui le alleanze in sede di voto (il Plenum del Csm che sovrintende, per diritto costituzionale, a ogni mutamento di funzioni e di carriera dei magistrati) determinano le sorti di grandi e piccoli uffici (Procure) e di grandi e piccoli tribunali. La parabola di Palamara è scolpita nella sua autobiografia intervista, dove confessa che già nel 2015 si era reso conto che era «ora di ribaltare il tavolo e di liberarsi del massimalismo giustizialista», forma letteraria per indicare il cambio di alleanze della componente di cui era leader (Unità per la Costituzione), migrando da Md-Area (sinistra storica) ai conservatori di Magistratura indipendente, corrente di fatto rifondata da Cosimo Ferri nei primi anni 2000. Da lì scaturisce nel 2015 il nuovo vertice del tribunale di Roma (ribaltone) e poi la doppia nomina dei vertici della Cassazione nel 2017 in cui Riccardo Fuzio (archiviato a Perugia giusto un mese fa nel filone Palamara) supera il candidato Giovanni Salvi (fratello del parlamentare Cesare, sostenuto dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini) come procuratore generale e Giovanni Mammone diventa Primo presidente. Una doppietta che gli costerà cara, ricostruisce oggi Palamara tra biografia e rancori, perchè segnerà l’inizio dei messaggi trasversali di potenti colleghi («sappiamo che hai l’amante») e l’avvio della terra bruciata nei suoi confronti con l’arresto dell’amico imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato il mese scorso, sempre a Perugia.
Fino ad arrivare giusto tre anni fa alla elezione dell’attuale vicepresidente laico del Csm, David Ermini, avvocato fiorentino e parlamentare del Pd sostenuto dall’accoppiata Palamara-Ferri, gradito a Lotti, considerato in quel momento un baluardo all’avanzata grillina e che a parità di voti la spunterà sul candidato 5S Alberto Benedetti solo per anzianità. Il punto più alto della parabola del più giovane presidente dell’Anm – carica che Palamara raggiunse prima dei 40 anni – ma anche l’inizio della sua fine. Tra rancori, appunto, retroscena e rivelazioni capaci quantomeno di insinuare un legittimo dubbio nell’opinione pubblica sulla sobrietà dell’utilizzo di un potere che è scolpito, guarentigie comprese, nella Carta costituzionale.
Resta da comprendere come questa deriva sia stata possibile, se poteva essere evitata e soprattuttose si riuscirà a evitarla in futuro. E soprattutto come finirà la resa dei conti ancora in atto.