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 2021  agosto 28 Sabato calendario

Biografia di Antonio Rezza raccontata da lui stesso

Tutto quello che Antonio Rezza esprime lo fa per lo più attraverso il corpo. Non con le parole, che spesso sono solo suoni, rumori, borborigmi, ma con gli arti che muove, il tronco che torce, il volto che deforma e le labbra che squittiscono. Rezza non si sente attore, è un animale da palcoscenico, a volte una marionetta senza fili, con un percorso originalissimo che ha pochi eguali in Europa. Ricordo gli apprezzamenti di Umberto Eco che nello spettacoloPitecus coglieva la travolgente energia selvaggia di quel corpo mimetizzato nei lenzuoli. Ricordo, anche, lo sconcerto, che una recitazione (non recitazione) provocava all’inizio in molti spettatori. Ma anche il divertimento surreale. Rezza è un margine, un confine, una soglia. Una linea d’ombra tra una giovinezza mai perduta completamente e una maturità mai agognata fino in fondo. Ci vediamo in un ristorante romano.

Guardando i suoi contorni da fachiro non mi stupirei se incominciasse a levitare. Nella sua vita parallela Rezza è un performer, in quella normale scrive romanzi, riflette su di sé, gioca con la mente. Da questa combinazione è uscita l’ennesima cosa curiosa: un mazzo di carte.
Cos’è il gioco per te?
«Una forma di movimento, ma anche astuzia e sfida. Godimento fino a quando ci si placa. Ma il gioco è anche ironia. Le carte che ho realizzato immagino di esporle a una mostra. Le ho ideate pensando ai tarocchi. Non leggono il destino, ma i pensieri. Le ho chiamate “Encefalon” come le carte Pokemon».
Sulla faccia di queste carte ci sei sempre tu, il tuo corpo volutamente deformato.
«Ho orrore per il corpo armonico e perfetto. Sono a disagio davanti alla prepotenza della forma fissa, statuaria».
Sei intollerante nei riguardi della bellezza.
«La bellezza ha perso il mondo non l’ha salvato. Ha emarginato e condannato il brutto. Ha costretto i brutti a diventare belli con il risultato grottesco di avere dei brutti ancora più brutti».
Questa difesa del brutto dove porta?
«A riconsiderare i nostri principi estetici. Mi rendo conto che è un’affermazione azzardata. Diciamo che la miglior cosa che mi può capitare è lavorare senza armonie prestabilite».
Nel disordine non ci sono regole. Come fai?
«Non è vero, ce ne sono poche ed essenziali. Tutto nasce dal respiro e dal movimento. Per il resto, sì, sono abbastanza disconnesso. Direi che è stata una prerogativa fin da bambino».
Com’eri da bambino?
«Vivace e dispettoso. Venivo confinato in giardino perché lì provocavo meno guai. Credo di non aver mai dissipato così inutilmente tanta energia. Poi, col tempo, ho imparato a incanalare l’aggressività, mano a mano che il corpo cresceva e si trasformava».
So che sei nato a Novara.
«È vero, ma all’età di un anno i miei si trasferirono prima a Roma e poi definitivamente a Nettuno. Un’emigrazione a rovescio. Mio padre chiese il trasferimento per potersi riavvicinare ai suoi. Era poliziotto».
Quanto di più lontano dal tuo orizzonte.
«Per anni ci siamo frequentati poco, soprattutto perché veniva spedito dove si verificavano disordini. E io pensavo che cazzo di vita è quella di reprimere le proteste».
Ti vergognavi del lavoro di tuo padre?
«No, da qualche parte devi stare. Ti ricordi la poesia di Pasolini sui celerini? Mica sono dei mostri!».
A proposito di Pasolini hai “riletto” il suo “Vangelo secondo Matteo”. Che operazione è?
«Alludi al Cristo morto, è un film cui ho lavorato autoproducendolo. Nasce da un dubbio: se Giuseppe non avesse accettato il fatto di Maria incinta? Ecco allora scendere l’arcangelo Gabriele per convincere Giuseppe che è tutto in regola, dopo di che Gesù nasce e piange come farebbe ogni neonato. È biondo, il che indurrebbe a qualche sospetto. Maria lo culla tra le braccia e Giuseppe, come stordito dalla solennità dell’evento, si rassegna al suo destino».
Ci sono artisti, come Pasolini e Carmelo Bene, che si lasciano coinvolgere profondamente dal sacro. Tu che rapporto hai?
«Per me Dio è un suono che crea ritmo. Mentre il sacro equivale a una scossa, un cortocircuito, un modo insomma di rimettere in discussione la realtà. Il Cristo che racconto più che a Mantegna rinvia alla Pietà di Michelangelo. È un povero Cristo, appunto. Un disperato che non parla. A volte urla ma il più delle volte tace».
Non dialoga.
«No, anche se la sceneggiatura lo prevedeva. Ma quando sono entrato in scena ho immediatamente sentito che le battute suonavano false e non riuscivo a pronunciarle. Allora ho cominciato a urlare e poi a mugolare e infine a tacere. Era il corpo che raccontava la tragedia. Non le parole. E lì mi sono davvero emozionato».
Gira e rigira torni sempre al corpo.
«È la mia lingua, la mia sintassi, la mia sgrammaticatura. Il corpo ha sostituito in larga parte la parola. Penso che la parola sia stupida. Miliardi di parole hanno instupidito l’umanità. Una chiacchiera ininterrotta si è insinuata ovunque. La parola inquina, come e più della plastica. Quando uno non ha niente da dire, invece di tacere, parla. Io non ho niente da dire per questo non recito, ne sarei incapace, esibisco un corpo disconnesso dalla parola».
Sei mai stato in un’accademia di recitazione?
«Agli inizi ho frequentato una scuola di Anzio diretta da Leonardo Bragaglia, nipote di Anton Giulio. Ci vollero dieci mesi perché capissi che recitare non era il mio mestiere. Da allora non faccio l’attore, non servo lo stato d’animo di un altro. Nelle mie performance non debbo immedesimarmi in qualcun altro. Sono semplicemente quello che si vede sulla scena».
Un corpo?
«Sì e una voce che non è la voce con cui adesso ti sto parlando. È la voce deformata, come deformato è il corpo».
Tu insisti molto su queste “sgrammaticature”: contorsioni, deformità, spasmi facciali. Perché?
«Forse perché in un corpo che muta rivedo l’anziano distorto dall’età. Rivedo il suo fisico sempre più lontano dall’originale. C’è qualcosa di patetico e di grandioso in questa lenta decadenza».
Capisco il patetico, ma il grandioso?
«Anche nella resa, nella disfatta, si annuncia un che di grande: più che il miracolo della vita, quello della fine».
Come vivi il tuo corpo che invecchia?
«Cerco di arginarne gli effetti, a cominciare dalla stanchezza. Perciò devo curare il corpo, allenarlo con esercizi e uso di macchine».
Cosa ritieni importante per un tuo spettacolo?
«Le prove sono tutto per me. Quando provo chiunque può venire e assistere. Lì realizzo il mio divertimento autentico. Dovuto a una certa dose di imprevedibilità. Poi, quando lo spettacolo è pronto, resta solo l’affidabilità e niente da quel momento in poi mi sorprende».
La tua arte cosa comunica?
«Niente. Cosa dovrebbero comunicare Beckett o Artaud? Di solito si vuole uscire da uno spettacolo rincuorati dal messaggio, dalla bella riflessione, dall’arricchimento morale. Ma l’arte non ha nulla a che vedere con l’etica. Trovo che il cosiddetto impegno civile nell’arte sia la più gigantesca menzogna della comunicazione. La cosa peggiore che mi potrebbe accadere durante uno spettacolo è vedere dei politici seduti in prima fila ad applaudire».
Le tue provocazioni mi ricordano quelle di Carmelo Bene.
«È stato uno dei pochi attori che ha servito soprattutto se stesso».
Lo hai conosciuto?
«Di lui ho un solo preciso ricordo. Una sera, dopo lo spettacolo, lo accompagnai a casa in macchina. Restò colpito dal fatto che la mia auto aveva lo sterzo che si abbassava e poi mi pregò di andare piano. Avevo al fianco una persona gentile e un po’ timorosa della mia velocità. Non intrattabile come si diceva».
Ti piaceva il suo teatro?
«Quanto di meglio circolasse allora. Anche se il suo barocco mediterraneo ha finito col diventare un po’ prevedibile. Dalla cerimonia al cerimonioso. In fondo, l’arte che mi piace è quella che non capisco. Va dove non ti porta il senso. Vedo un film di David Lynch e non lo capisco. E questo mi seduce. Smarrirsi è anche una forma di comprensione. Forse Dante non avrebbe scritto la Divina Commedia se non si fosse smarrito!».
E forse, senza gli smarrimenti, Artaud non avrebbe scritto “Il teatro e il suo doppio”.
«Ho tutti i suoi libri ma non ne ho letto nessuno. Mi sono sempre fermato alle primissime pagine. Mi bastavano. I libri belli non hanno bisogno della nostra approvazione. E poi penso al suo modo di riflettere sul cinema, al fatto che vedesse nel sogno cinematografico un modo diverso di pensare».
È stato, per quelle poche volte che si è visto, anche un attore straordinario.
«Al di là della parola».
A proposito di film non mi hai parlato del tuo cinema.
«Fatto perlopiù con Flavia Mastrella. Punteggiato dai corti e da film come Escoriandoli e Delitto sul Po. Qualche anno fa fu realizzata una rassegna del nostro cinema».
Ho visto una tua presenza in un film di Battiato.
«È raro che partecipi a film altrui. Non per snobismo ma per incapacità a recitare. Battiato veniva a vedere i miei spettacoli e una volta mi chiese di fare parte di un suo film. Era Musikanten. Gli risposi sì ma a condizione che la parte la costruissi io. E Franco accettò».
Nel nuovo film sul Cristo sei solo. Non c’è la collaborazione con Flavia Mastrella.
«Flavia è fondamentale in tutta la mia vita professionale. Senza il suo apporto sarei diverso da come sono. Capita però che si lavori separati».
Come hai lavorato nel periodo della pandemia?
«Con Flavia non abbiamo chiesto fondi o sussidi. Sono contrario all’assistenza statale. Mi piacerebbe avere quei soldi solo per il gusto di rifiutarli. La cosa grave è che il comune di Nettuno ci ha cacciati dallo spazio che gestivamo da 35 anni. È lo stesso edificio dove è morta Maria Goretti. Hanno detto che era inagibile. Occorreva solo una manutenzione ordinaria. Comunque abbiamo trovato un nuovo spazio ad Anzio. Penso che gli spazi appartengano a chi li vive. Mi addolora il modo in cui siamo stati sfrattati. E mi addolora ancor di più aver deciso che non lavoreremo mai più a Nettuno. E tutto questo è avvenuto solo pochi mesi dopo il riconoscimento a Flavia e a me del Leone d’Oro alla carriera che la Biennale di Venezia ci ha dato».
Che cosa significa per te provare dolore? Intendo per te che hai puntato quasi tutto sul corpo.
«Il dolore mi fa pensare a qualcosa di irreparabile. Mi fai venire in mente quello che di solito faccio per arginarlo».
Cosa fai?
«Di solito è mia madre, 88 anni, che mi tranquillizza. È stata insegnante alle elementari e ha mantenuto la saggezza pratica delle maestre di una volta. Per me, ogni volta che la vedo, è come fosse il primo giorno di scuola».
La maestra e il poliziotto. Come è stata la vita dei tuoi genitori?
«Come fare incontrare e convivere due mondi diversissimi. Ma ce l’hanno fatta. Nei miei riguardi sono stati a lungo perplessi. Non erano convinti della bontà della mia ossessione, del fatto che non mi sia mai creato un piano alternativo. Abbiamo litigato e ci siamo riappacificati. Li considero due pezzi unici, quasi da collezione, che vanno preservati. Quando sono da loro, quando vado a mangiare o a raccontargli le mie paturnie, è come se il tempo si fermasse. Hanno il potere di farmi tornare ragazzo e il dolore come per incanto scompare».