Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 28 Sabato calendario

Riscoprire Giovanni Giudici

Metti in versi la vita, trascrivi / fedelmente, senza tacere / particolare alcuno, l’evidenza dei vivi”. Sono tre versi di Giovanni Giudici, tratti dal suo primo e decisivo libro riassuntivo, La vita in versi, uscito del 1965 e già allora in grado di definire l’originale centralità di un poeta tra i nostri maggiori del secondo Novecento. Versi che esprimevano un progetto a cui, pur nella varietà molteplice della sua ricerca, Giudici tenne sempre fede, nella consapevolezza che “l’essere è più del dire, siamo d’accordo. / Ma non dire è talvolta anche non essere.”
Era nato nel 1924 nel piccolo borgo di Le Grazie, frazione di Porto Venere, era vissuto a Roma e si era poi trasferito prima a Torino e poi a Milano. La sua energia nel dire ci arriva intatta, nel lungo, articolato percorso della sua opera e a dieci anni dalla scomparsa si consolida nei suoi caratteri, e dunque nel costante sguardo alla concretezza del reale, sia sociale che interiore, e nella magistrale capacità di artefice, nell’estro libero che gli ha consentito, nel corso dei decenni, di modellare forme e scelte linguistiche.
In tempi di sperimentazione, anni Sessanta, dopo alcune plaquette di avvicinamento a se stesso, Giudici, appunto con La vita in versi, propone una poesia del tutto lontana dalle avanguardie, per non dire opposta.
Vanno qui poi ricordate le sue riflessioni teoriche sulla poesia, di cui troviamo traccia anche leggere nell’appena uscito, prezioso epistolario con Vittorio Sereni: Quei versi che restano sempre in noi. Lettere 1955-1982 (Archinto, p.168, € 21). Ed è tra l’altro ora apparsa la raccolta dei suoi scritti sull’Unità tra il ‘83 e il ‘97: Trenta righe (Manni, p.336, € 18).
Negli anni Sessanta, dunque, Giudici si muove in controtendenza, praticando toni vicini alla prosa, trattando volutamente situazioni di una quotidianità diciamo pure anche ordinaria, “umile”, solitamente considerate “non poetiche”. Nella sua pronuncia è subito evidente, peraltro, anche un legame con una certa tradizione, o con il grande esempio di Umberto Saba, di cui spesso ricordava con ammirazione la figura e l’esempio. Ci troviamo di fronte a un poeta che lavora su una materia apparentemente opaca, ma sempre con ironica vivacità e con una naturale destrezza nella gestione dei materiali espressivi, introducendo movimenti narrativi, passaggi ironici o di vero humour, raccontando delle impiegatizie frustrazioni di un personaggio, un proprio sosia, come aveva rilevato Giovanni Raboni. Un alter ego preso da ineludibili sensi di colpa e mosso tra residui di una educazione cattolica e aperture al socialismo, cimentandosi anche con tematiche sociologiche, basti pensare a titoli come Il benessere, Se sia opportuno trasferirsi in campagna o Dal cuore del miracolo.
Ma la poesia di Giudici proseguirà trovando altre strade, per esempio nella tensione lirica di uno splendido testo come La Bovary c’est moi, per voce femminile, o realizzando una vera e propria prosa di impostazione decisamente grottesca come Morti di fame.
E siamo qui al secondo tempo importante del suo percorso, la raccolta Autobiologia, del 1969. Ma ulteriori spostamenti saranno evidenti poi in O beatrice( 1972), dove il poeta tende a riappropriarsi di una certa letterarietà di accenti, muovendosi verso una dimensione “alta”, secondo un orientamento che diverrà decisivo in opere degli anni Ottanta, come Lume dei tuoi misteri (‘ 84) e soprattutto Salutz (‘86), in cui riprende un genere della poesia trobadorica accanto a elementi della lirica cortese altomedievale, con esiti a volte oscuri a volte di improvvisa lucentezza. Come del resto accadrà, almeno in parte, anche in Fortezza (‘90).
Tale è la varietà e la vastità della sua opera che darne conto in tutte le sue facciate è pressoché impossibile. È giusto allora rimandare il lettore al riassuntivo Meridiano Mondadori I versi della vita, uscito nel 2000 a cura di Rodolfo Zucco, con un saggio di Carlo Ossola e cronologia di Carlo Di Alesio.
Ma sicuramente una raccolta in netto rilievo di Giudici è da considerare Il male dei creditori, datato 1977, che già nel titolo ripropone il tema della colpa, indimenticabile in una breve poesia come Piazza Saint-Bon della sua Vita in versi. Nel Male dei creditori, compaiono situazioni e personaggi affioranti dalla memoria, con vicende dell’infanzia e figure familiari, con uscite d’ampio respiro, tra recupero della realtà trascorsa e invenzioni in racconti lirici di carattere quasi teatrale, per esempio in testi tra i suoi maggiori in assoluto come La sua scrittura e Gli abiti e corpi. In questa direzione Giudici proseguirà nel libro successivo, Il ristorante dei morti (‘81) e ancora più tardi nei toni dolcemente, malinconicamente affabili di Quanto spera di campare Giovanni(‘93), con passaggi emozionanti, nell’avvicinarsi della vecchiaia che gli fa anche riconvocare, nell’immaginazione, dalle lontananza del tempo, la figura della madre, precocemente scomparsa.
Segnate da un’intensità espressiva più ricercata, nella piena conferma della sua grande versatilità raffinata di artefice capace di passare sempre con successo dal registro basso a spinte verticali, saranno le sue ultime uscite, Empie stelle e Eresia della sera, e a proposito della seconda Carlo Ossola osservava come la poesia di Giudici avesse trovato «toni di un vespertino salmodiare ‘a lume spento’ sulle ore che hanno scavato il nostro Novecento», un momento di preghiera «di un’anima nuda con la propria coscienza». Ma per concludere è necessario ricordare che Giudici ha sempre affrontato e riproposto con passione grandi poeti di lingue e letterature diverse: importante era stato infatti il suo lavoro di traduttore, da Puškin, Coleridge, Pound, Frost, Plath, per non citarne che alcuni.