La Lettura, 28 agosto 2021
L’arte femminile afghana
«Che cosa dovrei cantare? / Io, che sono odiata dalla vita./ Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare./ Perché dovrei parlare di dolcezza?». Questi versi sono della poetessa afghana Nadia Anjuman. Nel 1995, sotto il regime talebano, frequenta ad Herat un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle School. Quando il regime talebano finisce, si iscrive all’Università per studiare quello che ama: la letteratura e la poesia. Riesce anche a pubblicare una raccolta delle sue composizioni: Gul-e-dodi («Fiore di fumo»). Nadia insegue un sogno che è fatto di libri, parole, versi e vuole trasmettere la sua passione declamando le sue poesie in pubblico. Poi si sposa. È una donna sensibile e di talento, ma come lei stessa scrive è «odiata dalla vita». Un odio incarnato dal marito che non tollera la sua recitazione davanti a tutti. E per questo la uccide. È il 2005, Nadia Anjuman ha 25 anni.
La sua storia è la più puntuale e drammatica testimonianza di quello che è accaduto e sta per accadere non solo per le arti in Afghanistan, ma soprattutto per il fragile destino delle donne. E forse ancor di più per le donne che rivendicano attraverso l’arte il bisogno di libertà: libertà di manifestare il proprio pensiero, una visione del mondo, la propria sensibilità e intelligenza. L’arte fa paura ai talebani: come possiamo dimenticare i tanti saccheggi e distruzioni di monumenti antichi, come quando nel 2001 i fondamentalisti fecero esplodere i Buddha di Bamyan. Secondo la sharia, praticata dai talebani, è vietata la rappresentazione sia degli dei che della forma umana. E quindi appare ancor più blasfema la rappresentazione delle donne. Già da qualche giorno tutte le fotografie sulle strade di Kabul in cui sono raffigurate figure femminili sono state coperte con la vernice. Ed ecco perché, prima della inevitabile, assurda e totale cancellazione di ogni memoria, è importante riflettere sul mondo dell’arte al femminile in quella dimensione culturale. Come si possono sentire oggi le artiste che vivono in Afghanistan? E chi sono? Cosa hanno fatto in questi vent’anni di apparente libertà? Solo una cosa sappiamo di certo: sono donne straordinariamente coraggiose, determinate e molto consapevoli del loro ruolo politico e culturale. Ma anche comprensibilmente impaurite per il destino che le attende. Martedì 24 agosto, in una conferenza stampa, il mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore talebano, ha dichiarato ai media: «Alle donne saranno concessi tutti i loro diritti... entro i limiti dell’islam». Una dichiarazione piena di ambiguità che non lascia grandi speranze per il futuro. Lo conferma anche Laila Noor, attivista e stilista femminile afghana residente in Germania. Alla «Deutsche Welle» ha detto di credere che i talebani probabilmente si asterranno dall’attuazione di misure repressive per i prossimi sei mesi. Ma poi si daranno da fare in una feroce repressione più avanti.
Ma chi sono e cosa fanno le artiste afghane più conosciute e attive? Sono pittrici, fotografe, registe, alcune sono esuli a Parigi, Londra, Berlino, New York, altre sono rimaste lì, a Kabul o tra le montagne afghane, dove il coraggio, quello autentico, è ora accompagnato dal terrore. È il caso di Shamsia Hassani, street artist che oggi rappresenta la più celebre voce di libertà della donna afghana. La giovane artista, nata in Iran nel 1988 – dove i suoi genitori erano emigrati a causa della guerra —, è rientrata in Afghanistan nel 2005, ha studiato arte all’Università di Kabul, dove è poi divenuta professoressa associata di scultura, dedicandosi alla street art dal 2010. I suoi lavori hanno come soggetto quasi sempre una giovane donna, una sorta di autoritratto in cui la ragazza è rappresentata con uno strumento musicale sottobraccio (vietato fare musica per i talebani). Una sua opera, ad esempio è un vero grido di speranza: mostra uno squarcio sul muro con una strada che porta alla Statua della Libertà. In altre sue opere vediamo invece ragazze oppresse da gruppi di uomini arcigni e armati di kalashnikov. Le sue ragazze sono rappresentate senza bocca, giocano con palloncini colorati, dialogano con le icone della bambina di Banksy e la banana di Cattelan, quasi a voler affermare una struggente e poetica connessione tra due mondi, così vicini eppure così lontani.
In questi giorni i social l’hanno scoperta: i suoi «sognanti graffiti» (come lei li definisce) sono diventati virali grazie a un’incredibile moltiplicazione di post rilanciati in tutte le piattaforme. I lavori di Shamsia Hassani sono presenti in molti muri della sua città, dove sarebbe per ora nascosta. «Voglio colorare i brutti ricordi della guerra», aveva raccontato in una recente intervista: «L’arte cambia la mente delle persone, le persone cambiano il mondo».
Già, le persone: non dimentichiamo mai che dietro un quadro, un graffito o una poesia c’è sempre una ragazza, una donna, il suo coraggio, il suo sogno nel credere di poter cambiare le coscienze. E creare così la speranza di un nuovo futuro. Forse è l’utopia dell’arte che vale a ogni latitudine, ma a Kabul questo assume un valore diverso. Perché lì, in gioco c’è la vita. E il coraggio di tanti artisti (uomini e donne) è ora unito alla paura di chi è braccato in casa.
«Questi giorni sono molto duri. Mi sento molto vicina alla morte» aveva confessato pochi giorni fa l’afghana Rada Akbar, 33 anni, artista che lavora con la fotografia e che ora è riuscita a mettersi in salvo in Francia. Aggiungendo: «Ogni giorno è come l’ultimo. Potranno uccidermi, ma non potranno mai uccidere il mio spirito. Non potranno rimuovere o cancellare i miei pensieri. I miei pensieri passeranno alla prossima generazione con o senza di me. E io non li perdonerò mai». Rada Akbar ha un carattere forte e idee chiare. Attivista per i diritti delle donne (organizzò una mostra per la Giornata internazionale della donna negli ex palazzi reali di Kabul). I suoi autoritratti, in cui si presenta con una regale corona di latta (visti come una minaccia al potere maschile) o le sue foto bellissime che ritraggono figure di donne vincenti e autonome, vengono viste come una autentica dichiarazione di libertà e di sfida che non può essere tollerata. Poco prima della presa dei talebani aveva confessato la sua rabbia: «Siamo la minoranza che sta combattendo, una minoranza che alza la voce. Uccidendo alcune di noi, costringeranno tutti gli altri a tacere. In questi giorni sento di essere molto vicina alla morte. Sarò viva domani?».
«Per quanto potrò essere viva?» È questa una domanda che molte donne si stanno facendo in Afghanistan. Lo leggiamo dalle cronache da Kabul: donne (anche bambine) destinate a essere date in spose ai combattenti talebani e poi l’educazione, l’arte, l’intera idea di libertà femminile da sopprimere, sempre e comunque. E a loro non resta che vivere nascoste, aspettando il peggio. Anche la storia della fotografa Farzana Parween Wahidy è emblematica di questa disperata situazione. Nata a Kandahar nel 1984, è ancora adolescente quando i talebani assumono il potere ma questo non le impedisce di frequentare segretamente la scuola, nascondendo i libri sotto il burka. Nel 2004 diventa la prima fotoreporter afghana a lavorare con un’agenzia internazionale: il suo sguardo è acuto, sensibile, profondo. E le sue foto, ritraggono il potente coraggio delle donne: «Scatto foto per esprimere i miei sentimenti di donna e attraverso le mie foto cerco di alzare una voce sulla condizione delle donne afghane in un mondo dominato dagli uomini».
Ed ecco altre testimonianze di donne di origine afghana che vivono in Europa: come Jeanno Gaussi, nata a Kabul, e che ora vive e lavora a Berlino. Il suo lavoro è intimamente connesso ai meccanismi del ricordo, alla ricerca dell’identità e ai processi sociali e culturali che la influenzano. Grazie al suo vivere in una dimensione occidentale i suoi lavori trasmettono una maggior adesione ai linguaggi contemporanei senza perdere però una tensione di denuncia: crea installazioni che includono video, fotografia, oggetti e testo. Gaussi ha partecipato a numerose mostre internazionali, tra cui Documenta (13) e la XII Biennale de L’Avana.
Oppure Kubra Khademi (1989), performance artist afghana che affronta i temi dell’identità femminile. La sua ricerca è una potente denuncia contro una società dominata dal potere patriarcale. Dopo una sua performance nel 2015 (Armor), Khademi è costretta a fuggire dal suo Paese d’origine. Attualmente vive e lavora a Parigi ed espone le sue opere in tutto il mondo. Nel 2016 riceve il titolo di Cavaliere dell’arte e della letteratura dal ministero francese della Cultura. Dal 2017 Khademi è membro dell’Atelier of Artists in Exile. E poi c’è anche Hangama Amiri, nata in Afghanistan, cresciuta in Canada, artista e femminista: con il suo lavoro analizza come le norme sociali influenzino la vita delle donne afghane.
Certo, è impossibile tracciare una puntuale mappa dell’arte femminile afghana, ma un tentativo importante c’è stato già nel 2014: da ricordare infatti il progetto Imago Mundi Collection, promosso da Luciano Benetton che raccoglie 26 mila artisti di più di 160 Paesi e comunità native di tutto il mondo, tra cui, appunto, l’Afghanistan. Untitled: Contemporary Art from Afghanistan, curato da Amanullah Mojadidi, rappresenta il tentativo di fornire una panoramica dell’arte contemporanea afghana allo stato nascente. La collezione di 142 opere include pittori, calligrafi, miniaturisti, scrittori, cineasti, musicisti, poeti e artisti multimediali di ogni livello. Tra questi autori anche le artiste donne che presentiamo in questa pagina, che sono solo una piccola parte di un mondo nascosto e che speriamo rappresenti la voce del futuro. Ma su tutto, ora resta solo tristezza e paura.
E allora, tornano alla mente le parole di Nadia Anjuman, uccisa a 25 anni perché declamava questi versi: «Sono stata silenziosa troppo a lungo/ Ma non ho dimenticato la melodia/ Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore/ Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia/ Per volare via da questa solitudine/ E cantare come una persona malinconica/ Io non sono un debole pioppo/ Scosso dal vento /Io sono una donna afghana».