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 2021  agosto 28 Sabato calendario

L’importanza degli epistolari degli scrittori

Ci vorranno probabilmente altri dieci anni prima che la Cambridge University Press finisca di pubblicare tutti gli 11 volumi dell’epistolario di Ernest Hemingway. Iniziato nel 2011, il progetto è arrivato circa a metà strada nel 2020, quando è uscito il quinto tomo. Con la raccolta di tutte le 6 mila lettere avremo il ritratto completo, non solo letterario, di uno degli scrittori più influenti del Ventesimo secolo che, in un’epoca ancora lontana dai social, dalle email e da WhatsApp, aveva in fondo le stesse preoccupazione degli scrittori di oggi, tanto da confidare all’amico e collega Hugh Walpole: «Per la prima volta ricevo lettere dai lettori. Ho risposto a tutti: ma ci vuole almeno mezz’ora a scrivergli. Ma… se non rispondo si arrabbiano? Non comprano più i miei libri?».
Proprio dalla consapevolezza che poco è destinato a rimanere degli scambi virtuali che ogni giorno tutti, scrittori compresi, ci scambiamo, il Festivaletteratura di Mantova ha scelto di celebrare questo genere letterario destinato probabilmente a scomparire, con una serie di incontri dedicati a tre epistolari importanti pubblicati negli ultimi tempi: quelli di Fëdor Dostoevskij, Goliarda Sapienza e Stefan Zweig. Nel corso della rassegna verranno letti e commentati dai curatori dei volumi insieme a critici e scrittori.
Al focus si aggiunge a Mantova (il festival si svolgerà dall’8 al 12 settembre) la «panchina epistolare», un format nato nel 2019 che prevede la lettura partecipata della corrispondenza tra due figure emblematiche della letteratura del passato. Quest’anno la scelta è caduta sulle Lettere d’amore tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, un intenso e poetico scambio fatto di attese, incertezze, pause e riprese. «Voglio essere leale fin dagl’inizii, come si usa fra i mercanti: io non sono un amico spirituale: sono tutt’al più un mediocre interlocutore cerebrale... Non credo nella psiche e ho un profondo disprezzo per la mia e per la vostra anima, alle quali non attribuisco maggior valore dell’energia che muove un lombrico e della clorofilla che colorisce uno stelo d’erba», scrive Gozzano nel 1907 all’autrice di Le vergini folli, raccolta che fu il motivo dell’avvicinamento tra i due. «Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità», scrive il poeta in una delle prime missive che l’editore Quodlibet ha ristampato nel 2019. Il fascino del carteggio risiede anche nel mistero che circonda gli originali: come ricostruisce bene nella postfazione Franco Contorbia che lo ha curato, il volume riprende infatti l’edizione del bibliofilo Spartaco Asciamprener (Garzanti, 1951) che possedeva l’epistolario, morto dopo la pubblicazione, nel 1954, in un incidente stradale. Quando le lettere vengono vendute dagli eredi se ne perdono le tracce.
Tra i carteggi di maggior rilevanza culturale usciti in Italia negli ultimi tempi c’è naturalmente la raccolta completa delle lettere di Dostoevskij, molte delle quali inedite, pubblicate dal Saggiatore in occasione del bicentenario della nascita dello scrittore. Missive che traboccano di materiale biografico-romanzesco: la passione per il gioco, la nascita dei capolavori, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo, le riflessioni sulla fede, il destino della Russia, il bisogno di denaro che lo accompagnerà tutta la vita. Lo stile concitato e febbrile che caratterizza gli scritti lo rende quasi un personaggio dei suoi libri, capace di trasformare la letteratura in vita. «Anja cara, amica mia, moglie mia, – scrive con candida impudicizia il 24 maggio 1867 alla compagna – perdonami, non chiamarmi mascalzone! Ho compiuto un misfatto, ho perso tutto ciò che mi hai inviato, tutto, tutto, fino all’ultimo kreuzer, ieri ho ricevuto il denaro e ieri l’ho perso». L’ultimo testo disponibile è addirittura scritto in terza persona: «Per circa 17 ore Fëdor Michaijlovic è stato totalmente certo di morire... Ora è cosciente e in forze ma teme che l’arteria scoppi di nuovo».

Spinoza, Beckett, Leopardi, Manzoni, Verga, Ungaretti, Montale: l’elenco di scrittori che, a volte a loro insaputa, hanno lasciato ai posteri, oltre a romanzi e versi, anche parole privatissime, dedicate al lavoro, all’amicizia, all’amore è lungo e profondo e ci dice molto delle loro debolezze, del loro narcisismo, di minimi, spesso triviali problemi di salute o di economia domestica, ma anche dei percorsi che il loro genio ha battuto prima di consegnarci capolavori o opere non riuscite. Ma spesso anche della distanza tra l’autore e l’uomo. Le lettere d’amore, poi, mettono spesso i lettori in una condizione di disagio voyeuristico, come di chi si trovasse a spiare dal buco della serratura qualcosa che non sarebbe né opportuno né lecito vedere. Anche i critici si sono spesso divisi tra chi rileva un’assoluta continuità tra libri ed epistolari, e chi invece sostiene la tesi di una complementarietà. 
Angelo Pellegrino, nella prefazione a Lettere e biglietti, volume edito da La nave di Teseo che conclude la pubblicazione quasi ventennale dell’intero corpus di Goliarda Sapienza, parla, a proposito della scrittrice catanese, di una «quarta voce» dopo quella dei romanzi autobiografici, dell’Arte della gioia, dei Taccuini. Le sue lettere, scrive, «non hanno mai un carattere pratico, com’è spesso dell’ordinaria corrispondenza, ma sono sempre dettate dall’esclusivo bisogno di trasmettere un modo di pensare e di essere, insieme a un modo d’amare» e sono indispensabili per conoscere Goliarda, la sua opera, il suo tempo. Il volume è un florilegio che mostra la varietà di persone con cui la scrittrice ebbe rapporti di amicizia, di lavoro, d’amore,compreso l’allora presidente della repubblica Sandro Pertini, legato ai suoi genitori dalla comune fede socialista. A lui, perorando la causa del suo libro L ’arte della gioia, in cerca di pubblicazione, fa un interessante excursus sullo stato delle lettere di quegli anni.

Per quanto il genere epistolare abbia una sua convenzionalità retorica e stilistica, nella scrittura privata c’è spesso un minore lavoro di cesello sullo stile. Ma, al di là della forma, compaiono in modo più spontaneo e non controllato, le ossessioni dell’autore o le riflessioni su temi cruciali della vita pubblica, come dimostra, per fare un esempio recente, il carteggio fra lo scrittore francese Albert Camus e l’intellettuale Nicola Chiaromonte, pubblicato da Neri Pozza (In lotta contro il destino. Lettere 1945-1959) di cui ha scritto Alessandro Piperno sul numero scorso de «la Lettura». 
Un documento illuminante, di cui si parlerà al Festivaletteratura, sono le lettere che lo scrittore austriaco naturalizzato britannico Stefan Zweig e il giovane Hans Rosenkranz si inviarono tra il 1921 e il 1933. Il carteggio, uno scambio di opinioni su questioni letterarie, politiche, identitarie e sioniste è stato donato nel 2016 alla Biblioteca nazionale di Israele, che lo ha reso disponibile per la consultazione online. La casa editrice Giuntina lo scorso anno ha pubblicato per la prima volta in italiano, con il testo originale tedesco, le 24 lettere e le 6 cartoline di Zweig. Il loro rapporto nasce quando il sedicenne Hans scrive una lettera all’autore già affermato chiedendogli consigli per diventare scrittore e accludendo alcune poesie. Zweig risponde con generosità e partecipazione, colpito dalla precocità intellettuale del ragazzo e inizia un rapporto di amicizia intessuto di letteratura, politica ed ebraismo. La profondità e l’urgenza dei temi trattati fa emergere un affresco della società dell’epoca, dall’Austria colta e liberale fino ai venti totalitaristi della Repubblica di Weimar. «Chissà, forse la Germania e l’Europa diventeranno così cupe che lo spirito libero non potrà più respirarvi», scrive Zweig all’amico che, infatti, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale emigrerà in Palestina.

La storia della cultura è piena di scambi imprevedibili, testimonianza di amicizie accese per caso e spente, di amori roventi e di tiepidi addii, di incontri intellettuali tra espressioni artistiche diverse. Quanta reticente complicità si può leggere nel carteggio (pubblicato da Adelphi) tra un genio del cinema come Federico Fellini e il padre di Maigret, Georges Simenon (nel 1960 lo scrittore era presidente della giuria al festival di Cannes quando La dolce vita vinse, suscitando qualche polemica, la Palma d’oro) o tra due giganti della letteratura come Henri James e Robert Louis Stevenson (i loro scambi sono usciti in Italia da Archinto, editore che da sempre ha un catalogo dal forte cuore epistolare)? Per non parlare del sodalizio artistico (senza alcuna concessione alla confidenza) tra Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss che per oltre vent’anni lavorarono insieme, quasi sempre restando lontani, l’uno in Austria, l’altro in Germania che fece dire al critico tedesco Richard Alewyn: «Nella letteratura mondiale non c’è nulla che sia paragonabile a questo epistolario».
Le lettere tra Vincent van Gogh e il fratello Theo hanno permesso anche agli studiosi di ricostruire la vita, gli spostamenti, le difficoltà dell’artista, mentre la corrispondenza che mescola erotismo e letteratura,tra due grandi come l’artista spagnolo Salvador Dalì e lo scrittore connazionale Federico García Lorca illumina l’opera dell’uno e dell’altro(si conobbero giovanissimi e la loro amicizia durò fino quando, nel 1936, il poeta venne fucilato dai franchisti). 
La corrispondenza amorosa è senza dubbio il genere più pericoloso, quello in cui la parola è maggiormente a rischio di usura. Nella cristallizzazione dei cliché e degli stereotipi retorici anche la più ardente verità può risultare insufficiente. Un genere in cui mostrò grande maestria e raffinatezza di scrittura, fin da giovanissima, Virgina Woolf. Il suo carteggio con Vita Sackwille-West anche lei scrittrice, aristocratica ed esuberante(più di 100 lettere che le due amanti si sono scambiate tra il 1924 e il 1941), non è solo la testimonianza di un amore che sfida le convenzioni dell’epoca senza per questo poter essere ascritto a una forma di militanza, ma il segno di una libertà espressiva straordinaria per l’epoca: «Creatura carissima, era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi», sono le parole di una lettera di Virginia che hanno dato il titolo a un volume pubblicato da Donzelli (Scrivi sempre a mezzanotte). 
La maggior parte degli epistolari d’amore nasce senza riguardo per un ipotetico lettore, rappresentano un momento di esposizione assoluta che può passare dal rapporto travolgente, esaltante e insieme autodistruttivo, bruciato per troppa forza in un brevissimo volgere di tempo (1916-1918 gli estremi del carteggio) tra Dino Campana e Sibilla Aleramo, alla lontananza ricercata da Fernando Pessoa con la giovanissima dattilografa Ophélia Queiroz: «Tutte le lettere d’amore/ sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero/ ridicole». 

Illuminanti e commoventi sono le lettere, circa 300, di Vladimir Nabokov alla moglie Vera. Venute alla luce nel 2010, consentono di ripercorrere una storia d’amore durata più di cinquant’anni, dall’ epoca del loro incontro a un ballo benefico nella Berlino del 1923 fino a poco prima della morte dello scrittore, nel 1977. A renderle note è stato il figlio Dimitri che, nel 2009, ha anche pubblicato il romanzo postumo e incompleto  L’originale di Laura, benché il padre ne avesse disposto la distruzione. Il dibattito sulla liceità o meno di pubblicare postumi testi che l’autore non avrebbe voluto dare alle stampe, d’altronde, è un tema che ha sempre attraversato l’editoria. A favore c’è sempre l’esempio di Franza Kafka i cui capolavori non sarebbero mai stati conosciuti se l’amico Max Brod avesse obbedito alla sua richiesta di distruggere i manoscritti, compresi gli epistolari, tra cui le Lettere a Milena e la Lettera al padre (mai spedita).
Anche Eugenio Montale si augurava, forse solo per civetteria, che delle sue carte si facesse «un bel falò» come ha ricordato Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera» del 10 marzo scorso dando conto dell’epistolario inedito pubblicato da Archinto tra il poeta di Ossi di seppia e una delle sue muse, la giovane «Nike», cioè Margherita Dalmati (nom de plume di Maria-Nike Zoroyannidis), conosciuta a Palermo e ritrovata nel ’62 in Grecia, dove era inviato del «Corriere». Una passione matura che lo spingeva a scrivere ancora nel 1968: «Tu continui a essere per me mia moglie, mia madre, mia figlia e persino la mia amante». 
In quegli stessi anni anche Giuseppe Ungaretti ebbe scambi assidui con una giovane poetessa brasiliana di origini piemontesi, Bruna Bianco. Quando si conoscono, a San Paolo, dove Ungaretti si reca per visitare la tomba del figlio Antonietto, lui ha 78 anni e lei 26. Le scrive almeno 377 lettere d’amore tra il settembre 1966 e l’aprile 1969 (sarebbe morto nel 1970), pubblicate da Mondadori nel 2017.«Ecco, caro amore mio, tutto. Ti penso sempre, Ti amo. Ti bacio. Il Tuo Ungà», così si chiude l’ultima missiva. Ma il messaggio finale arriva in Brasile sotto forma di dedica in un libro, datata 6 novembre 1969: «L’amore mio per te arde sempre sotto la cenere».