La Lettura, 28 agosto 2021
Lunga intervista a J. M. Coetzee
La conversazione con J. M. Coetzee è avvenuta per posta elettronica. Ero stato avvertito: l’autore dei Saggi (2006-2017) e di altre trenta opere non ama le interviste. E la mia è un’incursione che non sarebbe piaciuta nemmeno a David Lurie, protagonista di Vergogna, forse il romanzo più celebre di Coetzee in cui l’autore sudafricano espone una storia di solitudini difese, votate a smantellare perbenismi grossolani e razzismi «brutalmente insidiati».
Coetzee è sudafricano e adesso vive in Australia, diciotto anni fa ha vinto il Nobel per la Letteratura. Si dedica interamente all’insegnamento e alla scrittura, concentrandosi sugli autori francesi e di lingua anglosassone di cui raccoglie il testimone, inserendosi a pieno diritto nella «frizione esteriorizzata dello sguardo»: ogni sua anima messa in scena incarna l’abrasione nei confronti del piccolo mondo a cui si è destinati, portando i personaggi a considerare il mondo esteso oltre le Colonne d’Ercole.
Il risultato è una trasformazione di visione, di coscienza, che sembra tenere insieme gli scrittori su cui riflette nei Saggi: Gustave Flaubert, Irène Némirovsky, Samuel Beckett, Goethe, Tolstoj, molti altri, e di certo l’amatissimo Philip Roth, che definisce «il più grande romanziere americano dopo William Faulkner».
In che cosa lo considera grande?
«Non ha paura di esplorare i temi più alti e di misurarsi con gli standard più elevati. E infatti ha scelto di tornare ai tragici greci e di esplorare la hybris e le sue conseguenze sulla vita moderna. Se nei suoi racconti ultimi Roth si misura contro Sofocle, ne Il teatro di Sabbath, – per me il raggiungimento del suo apice, lo scrittore con cui si misura è Shakespeare. E che sia Sofocle o Shakespeare, in lui si trova sempre una complessità che oltrepassa».
Ancora Philip Roth: c’è un punto del saggio su di lui che mette in luce buona parte delle opere dell’autore di Newark. Mi riferisco a quella frase di «Indignazione» in cui Marcus si ricorda dell’ammonimento del padre: «I minimi passi falsi possono avere conseguenze tragiche». Quei passi falsi torneranno poi in «Nemesi» quando il protagonista accetta di lasciare la città natale seguendo il volere della fidanzata. I protagonisti di Roth a un certo punto si immettono in strade tortuose, quasi a volere scoraggiare la propria natura. E si fregano da soli. Avviene lo stesso nei personaggi di Tolstoj, solo che nove volte su dieci è Dio il sabotatore.
«Mi faccia pensare. È una domanda curiosa».
Non pensi ad Anna Kerenina, però. Che forse è stata l’unica a vincere contro Dio e a liberare Tolstoj.
«Per me Anna Karenina non lancia una sfida a Dio rimanendone sconfitta, né penso che Tolstoj avesse bisogno di essere liberato. C’è stato davvero un momento nella vita di Tolstoj in cui, per così dire, ha visto la luce; e in effetti da quel momento ripudiò più o meno i suoi primi scritti, o perlomeno perse ogni rispetto nei loro confronti, che siano stati passi falsi o no. È anche vero che quelle scritte dopo la conversione non sono le sue opere migliori, da un punto di vista letterario. Certo, ci sono alcune eccezioni, tra cui La morte di Ivan Il’ic. Ma chi dice che i criteri estetici debbano prevalere su quelli etici? Certamente non lo diceva il maturo Tolstoj».
Ma Tolstoj fece di tutto per anteporre l’etica all’estetica, a un certo punto. Coincide con la sua conversione religiosa, credo. Non pensa che la vita, la biografia di un autore, imponga una linea letteraria, volente o nolente?
«Mi chiede se credo che il testo letterario sia sempre legato alla biografia dell’autore? No, non lo penso. Ma per scrivere di un’opera letteraria, magari nuova o sconosciuta ai lettori, trovo utile situarla nella storia della sua epoca e nella vita produttiva del suo autore. Ecco perché nei Saggi, ci sono raccordi continui alle biografie».
Ci ho trovato anche un modo di smontare e rimontare la letteratura che è degno di chi ha l’arte della scomposizione manuale. Dico «manuale» perché è un lavoro tanto artigianale quanto a disposizione di chi guarda.
«La mia prosa lo richiede: smontare il testo stesso nel modo in cui un meccanico smonta un motore. Ma non mi considero un meccanico della letteratura: in inglese la parola “meccanico” ha connotazioni negative. Piuttosto sono uno scrittore in attività che usa il mezzo della lingua, e quando leggo un testo di solito sono curioso di sapere come è stato messo insieme, come è stato assemblato».
Su Samuel Beckett, per esempio, la incuriosisce soprattutto la scelta del drammaturgo irlandese di aderire alla lingua francese. Il fatto che nel francese senta la possibilità «del silenzio», delle pause, come nella struttura musicale e in quella pittorica.
«A Beckett veniva spesso chiesto da chi lo intervistava perché fosse passato dalla scrittura in inglese a quella in francese, un passaggio che ha effettuato alla fine degli anni Quaranta. Beckett non diede mai una risposta chiara. Forse la domanda non lo interessava davvero. La spiegazione più semplice è che avesse deciso di fare la sua vita in Francia, piuttosto che in Irlanda o in Inghilterra».
E se la ragione fosse, sotterraneamente, che la lingua inglese gli ricordava la disillusione accademica e il tedesco la delusione amorosa verso la cugina?
«Forse. E un’altra possibilità è che avesse trovato nella prosa francese certe qualità tonali che non potevano essere ottenute in inglese. Louis-Ferdinand Céline può essere stato un riferimento, da questo punto di vista. Non dimentichiamo che in un certo senso l’inglese in Irlanda è una lingua straniera. È la lingua del conquistatore storico, imposta alla popolazione indigena ma anche adottata e usata dagli indigeni seguendo le linee che ci sono familiari del mondo post-coloniale. L’inglese era la lingua madre di Beckett, una lingua imparata da bambino che padroneggiava in modo assoluto. Tuttavia, in quanto irlandese, aveva quello che definirei un rapporto alieno con la lingua: alieno nel senso che era, storicamente parlando, la lingua di un altro popolo. Pertanto, per come la vedo io, non avvertiva il bisogno di sentirsi o di essere fedele alla lingua inglese come si sarebbe sentito o comportato un autentico figlio d’Inghilterra come Thomas Hardy».
O un figlio di Francia, come Gustave Flaubert, per la lingua francese. La sua fu una condizione di identità miliare da ribadire. «Sono francese, parlo francese, vivo francese». Eppure in Emma Bovary c’è un qualcosa che esula dal binario di quella borghesia d’appartenenza d’Oltralpe.
«Dobbiamo stare attenti a non fare di Emma Bovary una figura troppo grandiosa. Gli oggetti del desiderio di Emma sono interamente determinati dalle mode del suo tempo, e in questo senso non sono autentici. Sarebbe estremamente sciocco per qualsiasi lettore modellare la sua vita su quella di Emma, o addirittura cercare in Emma una guida in materia amorosa».
Oddio.
«Sì, perché c’è un meccanismo più infimo: ciò che è rivoluzionario nel romanzo di Flaubert è che egli dedica alla vita di questa sciocca donna lavori artistici che appartengono propriamente a una figura della tragedia. In questo senso Flaubert apre la strada ai romanzieri naturalisti della generazione successiva, per i quali la vita della gente umile schiacciata dal capitalismo industriale può assumere dimensioni tragiche. Madame Bovary non è un romanzo politico ma ha insegnato molte cose agli scrittori di ispirazione politica come Émile Zola».
Cosa ha insegnato a Émile Zola?
«Nella stampa popolare dell’epoca, Flaubert era noto per essere lo scrittore che aveva introdotto il metodo scientifico nella scrittura romanzesca. Si diceva che avesse un atteggiamento freddo, obiettivo, privo di morale nei confronti dei suoi personaggi. Una nota vignetta lo raffigura con il cuore di Emma infilzato in un bisturi. Naturalmente Flaubert pensava fossero sciocchezze e che non fosse colto il punto di ciò che lui voleva fare, e cioè riversare tutta l’intensità della sua visione estetica e tutta la gamma delle sue risorse artistiche sul caso della povera piccola Emma. Émile Zola invece abbracciava senza resistenze l’idea dello scrittore-scienziato. Utilizzò una delle teorie scientifiche più controverse dei suoi tempi – la teoria dell’evoluzione, nelle sue applicazioni sia biologiche che sociali – per esplorare i destini di attori individuali sulla scena sociale. La grande lezione impartita da Flaubert a Zola e ai naturalisti era l’idea di fondare un intero romanzo sulla vita di un personaggio non eccezionale, senza particolare levatura intellettuale o morale né grande interesse umano, a condizione che lo si potesse considerare rappresentativo di uno specifico settore della società. In effetti questo passo segna una transizione dal romanzo-dramma, che ruota intorno a un eroe o un’eroina, al romanzo come caso esemplare incentrato su un soggetto umano osservato dallo scienziato-scrittore».
Sto pensando che anche il suo David Lurie, protagonista di «Vergogna», ha una matrice flaubertiana: un personaggio non eccezionale che rappresenta fino in fondo una certa società. Non crede?
«Questa è una domanda troppo complessa per essere affrontata in un’intervista».
Forse preferisce che la sposti su Irène Némirovsky. Una scrittrice riscoperta che vivisezionò nei suoi personaggi la Parigi di quegli anni.
«A mia memoria, l’unica scrittrice ebrea che abbia attraversato illesa gli anni dell’occupazione è stata l’americana Gertrude Stein. Stein era molto vicina al maresciallo Pétain, il capo del governo fantoccio di Vichy, che probabilmente la salvò».
Mi ha sempre molto colpito il legame tra la leggerezza di Némirovsky – il grande appartamento a Parigi, i balli scalzi, l’allegria di questa ragazza – e il fatto che non fuggì mai dal regime tedesco quando si sentì accerchiata. Quasi come se quella felicità, quella lievità a quella forza letteraria che aveva alle spalle (il successo clamoroso di «David Golder») la rendesse immune.
«Il caso di Némirovsky è interessante. Un insieme di fattori ha portato Suite francese all’attenzione del pubblico, prima in Francia, poi a un bacino più allargato. Questi fattori comprendevano: il tragico destino di Némirovsky, vittima del genocidio nazista; le vie quasi miracolose per cui è sopravvissuto il manoscritto del libro; la terribile ironia della guerra che annienta Némirovsky mentre lei stava tentando di racchiudere quella stessa guerra dentro i confini di un romanzo; e la francofilia che Némirovsky continuò a sostenere per tutta la vita. L’interesse per il suo lavoro creato da Suite francese consentì ai suoi editori di pubblicare nuove edizioni dei suoi precedenti romanzi, fra i quali I cani e i lupi è probabilmente il migliore».
Némirovsky, Beckett, Flaubert ciascuno degli autori che sbullona nei suoi saggi ha in comune un elemento ricorrente: l’adesione all’avventura. Avventura intesa come sfida a demoni a cui, forse, non si sarebbe mai stati destinati.
«E allora come non citare Daniel Defoe che ha vissuto una vita avventurosa e fu il padre dell’avventura, per quanto l’avventura fosse possibile per un membro più o meno rispettabile della borghesia inglese. Tendo a credere, tuttavia, che le avventure interiori di Defoe, spirituali (perdita di fede) o psicologiche (depressione), siano state più importanti nel concepire Robinson Crusoe. E a tale proposito, vorrei ricordare che anche questo romanzo inizia con un passo falso: la decisione del giovane Robinson di lasciare la sua casa e cercare fortuna nel Nuovo Mondo».
Perché ce l’ha tanto con i passi falsi?
«Sono la letteratura. E mi catalizzano, soprattutto come lettore».
Che genere di lettore è, Coetzee?
«Non dimentico il consiglio di Nietzsche: leggere lentamente».
È vero che questo moto di lettura rallentato, «puntiglioso e quieto», è proprio dell’occhio del poeta...
«La poesia è sempre stata molto importante per me, essendo il luogo in cui la lingua brucia con la fiamma più viva. Recentemente ho compilato per un editore argentino una raccolta dal titolo 51 poesie, scelte per rappresentare i poeti che ammiro di più e che hanno esercitato su di me un’influenza formativa in vari momenti della mia vita creativa. Cronologicamente i componimenti spaziano dall’epoca omerica ai poeti contemporanei».
Quali autori la continuano a influenzare?
«Fra i poeti del XX secolo che hanno influenzato la mia scrittura – e il mio modo di vedere il mondo – metterei Pablo Neruda, il grande erede di Walt Whitman, per il bellissimo drappeggio della sua retorica; Konstantinos Kavafis per l’acuta ironia e la capacità di concisione; Zbigniew Herbert per l’intensa concentrazione sull’essenziale; Wallace Stevens per l’eleganza intellettuale. Per quanto riguarda gli autori di narrativa, mi sono soprattutto concentrato sugli scrittori dalla prosa particolarmente pura e intensa: fra questi citerei Heinrich von Kleist, Franz Kafka e Samuel Beckett; ma anche su autori dallo stile rigoglioso o addirittura sontuoso come William Faulkner».
Fu Faulkner a dirlo: «Scrivere come se stessi morendo; leggere come se stessi morendo». Mi sembra sia il midollo che permea ogni suo saggio. O forse è solo l’amore poderoso per la letteratura.
«Da giovane vivevo la letteratura a casaccio, tranne quando stavo facendo una particolare ricerca. Ma ora, poiché non so quanto mi resti da vivere su questa terra, la questione è diversa. La questione ora è: leggere solo autori che amo. La questione ora è: non perdere tempo, mai».