Corriere della Sera, 28 agosto 2021
I banchieri centrali alle prese con debiti alti e fragile ripresa
Due giorni fa Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), un’azienda da 40 miliardi di euro di fatturato nel 2020, ha lasciato filtrare un’informazione di cui prenderà nota chiunque voglia comprare un’auto o un frigorifero di nuova generazione. Forte di una quota del mercato mondiale di quasi il 90% nei microchip più avanzati, Tsmc alzerà i prezzi. Sui semiconduttori più sofisticati il ritocco sarà del 10%, del 20% invece su quelli tradizionali presenti a centinaia in ciascuna auto nuova. Nel 2022 saliranno dunque i costi a carico di gran parte delle aziende al mondo che usano e producono beni anche con intensità modiche di tecnologia. Non passerà molto prima che queste ultime trasferiscano i rincari alle famiglie o a altre imprese, che a loro volta potrebbero fare lo stesso con sempre nuovi clienti.
La scelta di Tsmc è una conseguenza della pandemia, perché l’esplosione dei supporti digitali durante i lockdown ha fatto crescere le sue vendite del 25% e ora la obbliga a investire quasi 30 miliardi di euro per rispondere alla domanda mondiale di microchip. Così Covid accelera la trasformazione degli assetti industriali, del lavoro e nei prezzi verso un nuovo equilibrio che nessuno per ora è in grado di definire con certezza. Ieri alla conferenza (virtuale) di Jackson Hole Jay Powell, il presidente della Federal Reserve, ha parlato di uno «sconvolgimento in corso» nell’economia. Prima di conoscerne il punto d’arrivo però le grandi banche centrali, dalle quali dipende la tenuta di circa 20 mila miliardi di euro di debiti accumulati nel mondo durante la pandemia, devono decidere i prossimi passi. Devono scegliere quando e di quanto ridurre gli acquisti di titoli sul mercato, nell’ipotesi che la ripresa in corso regga all’impatto della variante Delta.
Quanto a questo, Powell ha mostrato ieri un’umiltà che lo distingue da predecessori come Alan Greenspan. L’attuale presidente ha detto che la Fed non ha certezze. Probabilmente inizierà a ridurre gli acquisti prima della fine dell’anno, però senza scarti bruschi né pensare ad alzare i tassi d’interesse per adesso. L’ipotesi di Powell è che rincari come quelli impressi da Tsmc o dai noli marittimi siano passeggeri e non si trasmettano ai salari o ai prezzi di molti altri prodotti. Benché incalzato a una stretta più decisa all’interno stesso della sua banca, Powell conta di evitare mosse traumatiche. L’inflazione americana oggi al 4,2% potrebbe scendere verso il 2% senza che una reazione improvvisa della Fed destabilizzi i mercati. Nessuno però può esserne certo, oggi. E resta da vedere se la Banca centrale europea, di fronte a un’inflazione molto più bassa ma per ora in aumento, avrà la stessa cautela di Powell. A maggior ragione dopo che, in termini netti, nel 2020 gli investitori esteri si sono disimpegnati dai titoli italiani e la Bce ha fornito tutto il finanziamento del debito pubblico. Questa settimana sono bastate poche battute di Philip Lane su un possibile rallentamento degli acquisti, per trasmettere una scossa al rialzo sui rendimenti dei titoli di Stato europei (più di tutti, quelli italiani). Il terreno resta fragile, il debito alto, la ripresa senza radici profonde. E il prezzo potenziale di ogni errore sta crescendo più in fretta dei listini dei microchip di Taiwan.