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 2021  agosto 13 Venerdì calendario

Intervista a Denis Villeneuve su "Dune"

Denis  Villeneuve è un intellettuale prestato al cinema. Il suo utilizzo dei film rasenta la saggistica filosofica e contiene un’inconsueta stratificazione di significati e ambizioni, difese anche quando è stato il momento di misurarsi con le megaproduzioni hollywoodiane: Arrival, Blade Runner 2049 e adesso Dune, la pellicola che debutterà alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia e dal 16 settembre sarà nelle sale italiane.


Dune è uno snodo-chiave nella carriera del 53enne regista del Québec, sia per l’inevitabile confronto con la prima trasposizione cinematografica  del romanzo di Frank Herbert, su cui s’incagliò fatalmente la carriera di David Lynch, sia per l’importante budget messo a sua disposizione (165 milioni di dollari) e per il cast stellare, che espone le due più luminose young stars del cinema d’oggi: Timothée Chalamet e Zendaya. Ma, ancor di più perché Villeneuve ha sempre dichiarato che questo era il film che sognava e attendeva di fare dal primo giorno.

Dune è il libro della sua formazione e il progetto che ha covato dagli esordi era di portarlo sul grande schermo non in un singolo episodio, ma inaugurando una vera saga. Adesso quel piano si è realizzato: il secondo episodio è già in programma, se ne potrebbero addirittura prevedere altri e sono probabili spinoff sotto forma di serialità televisiva, assecondando un sistema della rappresentazione che appartiene in modo ricorrente alla cine-fantascienza. Ma che rappresenta anche un lungo binario su cui uno spirito libero come Villeneuve dovrà far correre una bella porzione del suo futuro professionale. Non è un caso, perciò, che a margine della conversazione che ci ha concesso, per esplorare alcuni dei segreti di Dune, il regista si lasci scappare che presto gli piacerebbe dedicarsi a un piccolo film, con un budget da operina indipendente. Per non smarrire il tocco lieve e speculativo che lo fece conoscere agli esordi, quando venne apprezzato come un regista del pensiero, prima ancora che dell’azione.

Villeneuve, cosa la attrae nei romanzi di Frank Herbert? I mondi che crea, o il suo punto di vista sulla nostra società?
"Quando ho iniziato a leggere i suoi libri, e Dune in particolare, ero un adolescente di 13 o 14 anni. Sono rimasto colpito dalla malinconia della figura di Paul, il protagonista, quel suo sentimento di solitudine, la continua ricerca d’identità, il modo in cui trova consolazione e conforto avvicinandosi a una società sconosciuta. Mi ha commosso vederlo calarsi in un ambiente alieno e lontano dalle sue origini. E poi mi ha affascinato che tutti i personaggi della storia siano sensibili alla diversità, alla loro curiosità verso "l’altro". Attraverso gli scritti di Herbert ho esplorato l’ecologia e la biologia. La cura con cui crea e descrive un intero ecosistema è straordinaria e si estende fino alle piante e agli animali. Tutto appare così vero, tangibile, logico. Del resto la biologia è sempre stata la mia scienza prediletta. E in particolare mi ha convinto il modo in cui Herbert parla di religione, del suo potere, dei pericoli connessi, dei rischi di alienazione quando entrano in scena figure messianiche. Tutte cose che trovano posto in un film di fantascienza. Non è un caso che io abbia sempre continuato a pensarci. Nel frattempo Dune è anche diventato un libro tristemente profetico, tanto più se pensiamo che è stato scritto nel 1965: contiene temi come la deriva capitalistica della nostra società, i guasti connessi al cambiamento climatico e i pericoli sottesi allo scontro tra religioni. Tutti argomenti svolti in modo visionario e accurato".

Leggendo la sceneggiatura di Dune capiamo che nel film c’è un elemento ricorrente in molti suoi lavori, si pensi ad Arrival: i sogni. Un personaggio di Dune  dice che "i sogni creano una buona storia".
"Credo che all’origine di una narrazione ci possano essere proprio i sogni, e mi riferisco a quelli che capita di fare a ciascuno di noi, ma anche all’idea di fantasticare, di creare storie prima ancora che si pensi di usare una telecamera. Da bambino ero un sognatore e mi è sempre piaciuta l’idea dei sogni come chiave per comprendere la realtà: tecnicamente la vita può essere descritta come una parentesi tra due sogni, nei quali non ci sono filtri e c’è invece sincerità e contatto diretto col nostro subconscio, oppresso dal peso dell’educazione, della famiglia, della genetica e della politica. Anch’io ho sempre avuto difficoltà a disfarmi di queste costrizioni e a sentirmi libero. Detto questo, credo sia complicato inserire dei sogni in un film, perché i film, a loro volta, sono la cosa più vicina a un sogno: guardare un film su un grande schermo non è lontano da un sogno vero e proprio".

L’elemento femminile è importante in Dune , con la setta delle Bene Gesserit e il loro potere parallelo che genera un livello differenziato della narrazione. Al punto che già si parla di un possibile spinoff - forse un film, forse una serie tv - interamente dedicato a loro.
"Quando ho deciso di dirigere Dune ho chiamato lo sceneggiatore Eric Roth, perché sono convinto che sia in possesso della cultura necessaria per affrontare la spiritualità di una storia come questa esplorandone gli aspetti religiosi, ma soprattutto perché ho sempre apprezzato il suo modo di delineare i personaggi femminili. Ho letto molte sceneggiature di Roth e quando ci siamo incontrati la sua prima domanda è stata: "Ok, facciamo questo film insieme, ma qual è la cosa principale che vuoi da me? Su cosa mi devo concentrare? Qual è la priorità nell’adattamento del libro?". La mia risposta è stata: "I personaggi femminili". Credo che la femminilità sia al centro del film. Nel libro le Bene Gesserit sono essenziali: governano un potere tutto loro e lo fanno seguendo traiettorie proprie, praticando la manipolazione e utilizzando la più sofisticata delle armi: il tempo. Le strategie con cui usano il tempo mi hanno sempre affascinato, mentre i maschi non fanno che correre per andare in battaglia. Le donne sono più forti. E questo mi ha fatto riflettere anche sul rapporto tra la nostra cultura e il tempo: chi di noi sarà capace di durare di più? Gli americani vedono tutto in modo economicistico e per loro è importante fare guerre che durino tre mesi, convinti di poter comprimere il tempo. Altre culture invece sono più attente a sfruttare il loro tempo. Credo che queste alla fine prevarranno".

C’è entusiasmo tra gli appassionati riguardo alla progettazione che ha dedicato alle macchine volanti usate dai popoli di Dune. C’entra Moebius, è vero?
"Certo, Moebius mi ha influenzato enormemente, come tanti altri autori di quella magnifica rivista che era Métal Hurlant. Oggi sono qui anche grazie a loro, rappresentano la mia principale ispirazione visuale come regista. Non volevo macchine volanti ipertecnologiche, ma delle astronavi e delle navicelle spaziali che somigliassero a monoliti e che fossero giganti. Mi piace l’idea che l’architettura e i mezzi di trasporto possano far somigliare gli umani a umili formiche. Perciò le macchine di Dune sono state costruite con questo monumentale sentimento di solitudine e di oppressione nei confronti dei loro utilizzatori. C’è qualcosa di spaventoso nelle loro dimensioni, e in questo ho seguito gli esempi di Moebius. Poi, attenendomi al libro, le macchine dovevano avere ali come quelle degli uccelli e allora ho scelto di spingermi ancora più in là, prefigurandole come insetti. Al designer Patrice Vermette ho chiesto che somigliassero a coleotteri, ma che poi fossero delle reali macchine e non delle burle hollywoodiane, delle vere, funzionali macchine volanti. Ci sono talmente tanti elementi complicati nel film, dalle diverse fazioni alle differenti culture, dalle famiglie regnanti agli gli ordini religiosi, che lo spettatore ha parecchio lavoro da fare. Perciò l’architettura e i veicoli li ho voluti comprensibili e facili da assimilare: aiuteranno il pubblico a imbarcarsi in questo viaggio".

Parliamo del cast. Con Zendaya e Chalamet ha messo insieme le due principali rivelazioni del nuovo cinema. C’è stata chimica in questo incontro? Cosa ha chiesto loro?
"Il primo attore che ho scelto è stato Timothée. Non avevo un piano B, era lui o nessuno. Sapevo che aveva la competenza, il talento e la forza per caricarsi il peso di un film così, perché lo spettatore vede la storia attraverso i suoi occhi, la camera sta appena sopra le sue spalle e mi serviva un attore che avesse la forza per sostenerlo, senza timori. Il personaggio di Paul è pieno di sfumature e avevo bisogno di qualcuno dotato dell’intelligenza necessaria a portare tutto ciò sullo schermo. Timothée è maturo, quando ci parli t’accorgi che ha un’anima anziana infilata in un corpo giovane. Ma ha anche il carisma della rockstar: quando l’ho incontrato era a inizio carriera, era appena uscito Chiamami col tuo nome, ma già si capiva che si trattava di un attore dal talento astronomico.


Invece, quando ho fatto il casting per il personaggio di Chani ho incontrato molte attrici. Zendaya ha voluto fare l’audizione e oggi, dopo aver girato il film e dopo aver visto che attrice magnifica sia, mi dispiaccio d’averla sottoposta a un provino, solo perché non la conoscevo. Comunque quel giorno, mi ha impressionato e quando è uscita dallo studio sapevo che Chani era lei, la giovane tigre del deserto. Sono onorato di presentare sullo schermo due talenti così esplosivi e non vedo l’ora di girare la seconda parte di Dune per riaverli insieme. Sapendo che nel prossimo capitolo sarà Zendaya la protagonista della storia".

Ha girato nel vero deserto. Niente imitazioni o effetti speciali.
"Quando ho accettato di fare il film ho dettato delle condizioni: una di queste era che volevo girare nel deserto reale, perché odio il green screen e amo muovermi dentro ad ambientazioni autentiche. Sono della vecchia scuola: le finzioni digitali mi deprimono. Volevo mettere il film in un vero deserto, perché Lo squalo non è stato girato in una piscina, ma nell’oceano e se il mio film si chiama Dune, avevo bisogno di dune reali. Così abbiamo lavorato nel deserto della Giordania, coi suoi panorami infiniti che riflettono il nostro Io interiore e tante visioni che riassumono la relazione tra noi e il mondo. Il deserto è un’esperienza intima, ti rende meditativo e più lo penetri, più vai nel profondo di te stesso. Tutto ciò per me è molto cinematografico, ed è quel che cercavo per girare Dune: volevo che il cast assaporasse quest’esperienza unica. Il mio compito era trasportarla sullo schermo".

Dune promette d’essere soprattutto un grande film di atmosfere, un’altra delle sue prerogative come regista. Stavolta quali sono queste atmosfere?
"Volevo che il film fosse credibile, non ho cercato esotismi. Volevo la luce di tutti i giorni, non tramonti o albe perfette. Volevo che fosse accessibile e comprensibile. Solo così gli spettatori si sarebbero concentrati sui personaggi e sulle loro relazioni, senza essere distolti dalle cornici del film. Perciò ho dato spazio alla natura per quel che è, ovvero senza cercare di controllarla o di modificarla. È così che la malinconia e la solitudine, che sono i sentimenti forti di questa storia, sono saliti a galla da soli. Senza trucchi e senza inganni".