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 2021  agosto 28 Sabato calendario

Intervista a Matteo Berrettini

A New York sta per andare in scena la nuova puntata Slam dell’anno, e Matteo Berrettini si avvicina al palcoscenico dopo l’estate più bella e più pazza dello sport italiano. Il tennista romano è stato uno dei grandi protagonisti con la finale di Wimbledon.
Matteo, lei dove si colloca nella hit parade di questa estate?
«Be’, io so cosa ho fatto e quanto lavoro c’è alle spalle: non è avvenuto tutto in un giorno. Ma non mi piace parlare di me stesso. Mi sono emozionato guardando i ragazzi e le ragazze alle Olimpiadi: credo che Marcel Jacobs abbia fatto una delle più grandi imprese sportive di tutti i tempi. Sono gli appassionati a dover dire dove mettermi in classifica.
Diciamo che il podio penso di meritarlo…».
Voi eroi dello sport avete dato un bel messaggio all’Italia, in questo momento così difficile.
«Siamo un popolo che vive ancora di emozioni. Nonostante questo periodo terribile di cui anche lo sport ha risentito tanto, soprattutto per l’assenza del pubblico. Ma credo che questa estate siamo riusciti ad aprire un grande varco, al livello emozionale, e non vedo l’ora che questo momentaccio passi».
Ogni bambino sogna di essere finalista a Wimbledon. Cosa si prova a viverlo in campo, quel sogno?
«Eh… cercavo di non farmi travolgere dalle emozioni, volevo realizzare quanto stava succedendo. Ricordo la routine, il riscaldamento con Paolo Lorenzi. Mangiavo a fatica, lo stomaco chiuso per la tensione. Mi sforzavo di viverla come una cosa normale. Anche se, ovviamente, non c’era nulla di normale».
Rigiochiamo la finale con Djokovic: sotto 2-5 nel primo set, alla fine vinto 7-6. Poi il ritorno del serbo.
«Quella rimonta mi è costata un grande sforzo, sia fisico che mentale.
All’inizio nessuno dei due ha giocato bene, anche lui era un po’ teso. Ho subìto un break ma sono rimasto aggrappato al set. Poi, certo, sapevo che la partita sarebbe stata ancora lunga. In generale, ricordo la fatica di gestire le emozioni e le difficoltà tecniche e tattiche del match».
Dopo la sua finale, in serata, Italia-Inghilterra, a Wembley. Il ritorno a Roma, i presidenti Mattarella e Draghi, il tour sul bus con i calciatori.
«Che momenti! Wembley è stato bellissimo, anche perché con me c’erano la mia famiglia e il mio team.
Avevo visto tutte le partite dell’Italia, ed essere alla finale, vivere i rigori, è stato bellissimo e inaspettato. La tensione della partita mi ha fatto quasi dimenticare quella che avevo appena vissuto io, poche ore prima. E poi, appunto, tutto il resto: dopo quei 2-3 giorni me ne sono serviti una decina per realizzare bene, apprezzarlo fino in fondo».
Cosa le è rimasto dentro? Anche una cosa piccola o intima...
«La visita al Quirinale, il discorso fatto davanti al Presidente. Con me c’era Vincenzo Santopadre, il mio coach: quando ha capito che non avrebbe dovuto parlare ha sfoderato un gran sorriso, a me invece sono venuti i sudori freddi. Ma essere lì con Vincenzo e Giovanni Malagò, che fin dall’inizio ha creduto in me, come presidente del Circolo Aniene, mi ha fatto pensare al lungo percorso insieme, sin da quando ero ragazzino. Mio padre mi ha scritto di essersi commosso per il discorso che ho fatto. Mia nonna ovviamente in lacrime. Mi ricordo la grande scioltezza del premier Draghi, che ci ha accolto in maniera informale e ci ha fatto sentire a nostro agio, nonostante il cerimoniale».
Dopo Wimbledon lei è diventato molto popolare tra le ragazze.
«Ah ah ah. Sì, ho letto di un po’ di interesse, e la cosa mi ha fatto piacere e anche un po’ sorridere: mai avrei pensato che si scatenasse un’onda simile. Ma proposte indecenti no, ho letto qualcosa tipo un "prendimi a racchettate" ma ho preferito non approfondire».
Quando c’è Matteo Berrettini non si vive di mezze misure, si vivono sempre emozioni forti.
«Ci ho pensato anche io e, insomma, credo di essere fatto così, è la mia vita. Non c’è mai una pausa emotiva, è sempre tutto molto intenso. Credo sia una cosa bella, comunque: sono passato da una grandissima gioia a una delusione. Ma il mio fisico mi ha mandato un segnale forte: saltare le Olimpiadi di Tokyo mi è dispiaciuto tanto, ma ancor di più leggere certe insinuazioni. Hanno detto che avrei finto un infortunio, una cattiveria che mi ha fatto stare più male della grandissima delusione di non aver potuto partecipare ai Giochi».
Lei continua a scrivere pagine inedite per il tennis italiano.
«E questo mi spinge a volere ancora di più, cercando di rimanere sulla mia strada. A Parigi sono diventato il primo italiano a raggiungere gli ottavi di finale in tutti gli Slam. Ne sono orgoglioso perché ricordo quando, da piccolo, giocavo solo sulla terra rossa e il veloce non mi piaceva tanto. Ho saputo adattarmi e crescere su tutte le superfici: un grande risultato. E poi sono e resterò il primo finalista italiano di Wimbledon, cosa che mi rende davvero orgoglioso.
Perché nel nostro Paese il tennis non è il calcio, ma ha la sua storia importante, piena di tradizione e di campioni nel passato».
E ora New York, gli Us Open: senza Federer e Nadal, solo voi giovani leoni potete impedire a Djokovic il Grande Slam.
«Io gioco per me stesso, non per evitare che qualcuno faccia il Grande Slam. Novak sta scrivendo la storia del nostro sport e se centrasse lo Slam, realizzerebbe l’impresa sportiva dell’anno, per tutti gli sport e a tutti i livelli. Ma non sarà così facile, con Zverev, Medvedev, Tsitsipas.
Sicuramente è il grande favorito. Il tabellone ci fa incrociare nei quarti?
Però bisogna prima arrivarci».
Nonostante tutto, la sua estate è stata di basso profilo: altri avrebbero usato molto di più la passerella e il palcoscenico.
«Mah, per me sono apparso anche tanto. Io sono un ragazzo tranquillo, che non che non vive di movida e di media. Certo, la fama fa piacere, ma non la ricerco. Poi, dopo l’infortunio non ero al massimo, quindi mi sono riposato, ma sempre concentrato per tornare a giocare il prima possibile».
Dopo un Wimbledon così, non c’è un rischio appagamento?
«Appagamento è una parola che non mi appartiene. Io vengo da lontano: uno dei miei obiettivi, quando ho iniziato a giocare, era entrare nei Top 100. Quindi sarei già dovuto essere appagato da un pezzo. Invece ho sempre chiesto di più a me stesso, perché so che ogni grande risultato potrebbe essere l’ultimo. Ci vuole tanto impegno e tanta volontà per confermarsi. Quindi, per rispondere: non sono appagato e ho sempre voglia di migliorarmi. Però, allo stesso tempo, ho anche imparato ad apprezzare quello che faccio, non dando nulla per scontato: il tennis è uno sport complicato, dopo un grande risultato la settimana successiva ti chiedono di farne un altro, non c’è mai una fine e non puoi mai staccare la spina. Però, è anche questo il bello: dopo una delusione puoi subito ritornare più forte e volenteroso di prima. Niente appagamento. Ma equilibrio e stimoli».