Ormai Mannarino ha imboccato strade lontane, è un esploratore di alterità, geografiche e mentali, un guerrigliero nomade in cerca di battaglie che valga la pena di combattere: «Sì, ho viaggiato tanto negli ultimi anni, sono stato più fuori che in Italia, e mi sono cibato di queste esperienze, ho vissuto in una favela, in Amazzonia, ho visto così tante realtà che mi sono entrate dentro e non potrò mai più farne a meno». Esce oggi il singolo Cantaré, che segue l’altro pezzo, Africa, e insieme annunciano un nuovo album intitolato V, in uscita il 17 settembre, a cui seguirà un tour che partirà nei palazzetti italiani nel febbraio 2022.
Questa volta è andato davvero molto lontano per cercare il senso delle cose?
«Prima di cominciare a scrivere mi sono fatto una domanda semplice: dopo tutto quello che ho fatto, cos’altro posso dire? Nei miei dischi c’era già una sorta di poetica dello scontro contro il sistema. Ma stavolta dovevo cercare qualcosa che raccontasse l’essere umano e la sua forza ancestrale, quindi un disco dal quale uscisse la vitalità, il rapporto con la potenza e il mistero della vita; ho cercato i suoni delle foreste, la musica degli indigeni che imitano le cose della natura, ovviamente seguendo regole armoniche diverse dalle nostre e ho lavorato con artiste dell’Amazzonia. Il tema più importante ora è il pianeta, ce lo dice la scienza, non abbiamo più tempo, ma chi è che combatte davvero per questo? Gli indigeni e le donne. Sto cercando di liberarmi dall’assuefazione al sistema, me lo chiedevo già quando studiavo antropologia: ma è normale quello che viviamo qui? E poi volevo scappare dall’influenza anglosassone, anche questa è una scelta politica, perché anche musicalmente siamo colonizzati.
È tutto moda e mercato, tutti cercano di fare quello che va già di moda e in genere è materia che viene dal mondo anglosassone».
Il disco trasuda passionalità, primitivismo, un furore che sembra quasi non appartenere al nostro mondo. Ma c’è possibilità di salvezza?
«La verità è che io ho molta fiducia nel Sudamerica: se c’è una forza che ci può salvare dal capitalismo puritano protestante sono i paesi in cui convivono indios, neri, nativi americani e i figli degli europei...
è un continente di grandi contraddizioni ma mantiene una forza vitale. Ci sono manifestazioni di dissenso cruente, ma anche piene di vitalità, colorate, vive.
L’unico antidoto possibile all’algoritmo e al liberismo è riscoprire la nostra indigenità, le cose primordiali, la lava, il tuono, la terra, gli archetipi…».
Al fondo c’è tanta rabbia, ma alla fine tutto si trasforma in una ricerca di bellezza, seppure diversa?
«Per me il peggior nemico è la propaganda. I politici hanno gli algoritmi che gli consigliano i post che devono fare. Ma anche l’apparato dello Stato: vinci gli Europei e sembra che hai vinto la guerra. Ci vuole qualcosa di meno viziato, bisogna andare alla radice delle cose, e lì che ci trovi il rapporto fisico, carnale, corporeo, e nel disco è soprattutto quello tra un uomo e una donna: lì ho trovato l’alterità e l’ignoto. La protagonista è una donna, è una guerriera indigena, mi sono tolto dalla copertina e ci ho messo lei, una donna vestita da battaglia tribale, ha una maschera e non sai se la sta mettendo o togliendo».
È vero, il disco è attraversato da tante voci femminili, e di
femminilità si parla, c’è erotismo.
Saranno le donne a salvarci?
«Mi ha appassionato questa immagine che è di lotta ma anche di bellezza, è la forza della natura della giungla. In una canzone che si intitola Lei, che per me è la fine ideale del disco, c’è una donna che con un orgasmo salva il mondo, poi il vero finale si intitola Paura, e lì c’è l’uomo rimasto solo. Nel negare l’identità della donna l’uomo ha negato se stesso, ma se l’uomo non vede la donna cosa diventa? Un bambino viziato egoriferito. La consapevolezza delle donne oggi mi emoziona, ci deve essere uno scontro positivo, guardarsi per quello che siamo, non come i preti che dicono che le donne devono fare un passo indietro. Una donna che mi mette in discussione mi mette in crisi ma mi fa crescere».
C’è qualcosa di commovente nella fiducia che si sente in queste canzoni…
«Se solo riscoprissimo la magia della vita ogni mattina vedremmo più cose, ma sembra che siamo ciechi. In questi giorni sto vivendo in una capanna in Sardegna e con un amico stiamo cercando sentieri nuovi, faccio caso a delle cose che stavo dimenticando, l’odore della corteccia, del mirto, ti accorgi che il tuo corpo si sente a casa, e ci siamo totalmente distaccati da questo.
Abbiamo fatto tante cose, ma se ci dimentichiamo del corpo possiamo solo essere distruttivi.
Io mi sono buttato dentro questo lavoro per ritrovare qualcosa di magico, lo stupore dell’uomo di fronte a una terra vergine. Erano due anni che ci lavoravo, durante la pandemia, ho pensato che quello che ci serve è ricordare la nostra forza, non accettare qualcosa che non ci suona, che non profuma».