la Repubblica, 28 agosto 2021
Un docufilm su Hitler e sulla sua influenza nefasta
The Meaning of Hitler, ovvero il significato di Hitler, è il titolo inquietante e ambizioso di un documentario proiettato in questi giorni nei cinema di New York. Si tratta di un titolo che promette una risposta impossibile, sebbene gli autori giungano alla conclusione che il Führer fosse una persona comune e mediocre, e l’abominio che ha generato sia nato da quella che Hanna Arendt ha definito la banalità del male. Diretto da Petra Epperlein e Michael Tucker, il film si basa su un testo di Sebastian Haffner (1907-1999): da un punto di vista formale è molto efficace, ma sul piano della sostanza non ha un vero centro narrativo, forse perché risulta impossibile svelare il mistero della sua personalità. Illuminante in tal senso la testimonianza di uno psichiatra che ricorda come gli siano state attribuite tutte le possibili patologie mentali esistenti, spesso contraddittorie l’una con l’altra.
Non sorprende apprendere che Hitler non avesse alcun amico, e che in qualunque incontro fosse il solo a parlare: lo stesso avveniva con le donne, e appare un mistero nel mistero la passione di Eva Braun per lui. I registi si avvalgono di interviste a storici, reduci dell’Olocausto, scrittori come Martin Amis e il cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld, che sostiene che «la storia non ha una precisa direzione».
Non meno importante il materiale di repertorio e le sequenze di film come Schindler’s List, The Producers, e quelli in cui il führer è stato raffigurato sullo schermo da attori diversissimi quali Anthony Hopkins, Bruno Ganz e Alec Guinness. Epperlein e Tucker si chiedono come mai i film gli dedichino una morte che ha il tragico crisma dell’epica, mentre tale riguardo viene negato alle sue vittime: le immagini de La Caduta, con Goebbels che fa il saluto nazista di fronte al cadavere in fiamme di Hitler hanno una mostruosa forza ipnotica, cosa che non succede in quelle che mostrano gli ebrei nudi e rasati a zero nelle camere a gas in Schindler’s List. Il documentario parla quindi di una persistente fascinazione, citando l’incredibile numero di saggi, romanzi, documentari e film che continuano a essere prodotti: le motivazioni sono più commerciali che accademiche, perché esiste un pubblico che, per dirla con il vangelo, «preferisce le tenebre». Da questo punto di vista, le scene più agghiaccianti sono quelle in cui vengono intervistati alcuni neonazisti e giovanissimi che si dilettano con giochi che hanno per tema l’Olocausto, ignorandone, o volendone ignorare, il vero significato e la tragedia.
Ma forse la sequenza che rimane maggiormente impressa è girata a Sobibór: dopo aver smantellato il campo di sterminio, i nazisti piantarono un bosco per occultare quanto era avvenuto, ma oggi lì non c’è traccia di alcun animale, e perfino gli uccelli evitano di volare su quegli alberi, come se percepissero il peso insopportabile di quel luogo di morte. Non meno raggelante la documentazione dei tour organizzati a Treblinka dal negazionista David Irving, che minimizza le atrocità avvenute: dopo essere stato condannato per «aver glorificato ed essersi identificato con il partito nazionalsocialista» Irving ha fatto di tutto per riacquistare una credibilità da storico, negando di essere un antisemita, ma, non accorgendosi di essere registrato, confida a un compagno che «gli ebrei non sanno lavorare, ma al massimo scrivere ricevute».
Davanti alla casa di nascita di Hitler a Braunau è stata posta una scritta per ricordare quanto male è nato insieme a lui, mentre colui che accompagna i visitatori nel bunker dove passò gli ultimi giorni racconta che le domande poste ripetutamente sono «siamo sicuri che è morto?» o «come avvenne che i nazisti conquistarono la Germania?». La residenza di vacanza, chiamata Berghof, venne abbattuta alla fine del conflitto per evitare che diventasse un luogo di ritrovo di neonazisti: anche in questo caso è sorto un bosco, dove i nostalgici si recano a incidere svastiche sui tronchi degli alberi.
I registi ricordano che Joachim Fest nella sua biografia sostiene che il giudizio su Hitler sarebbe stato positivo se fosse morto prima dello scoppio della guerra, ma se è vero che gli eventi più atroci avvennero in seguito, non si può affatto minimizzare le mostruosità messe in opera prima, a cominciare dalla notte dei cristalli, l’incendio del Reichstag, lo sterminio delle Sa, la persecuzione degli oppositori, il rogo dei libri, la condanna dell’“arte degenerata”, le leggi razziali e quelle sulla sterilizzazione dei disabili, definiti «disgustose sottospecie umane». Lascia il tempo che trova la riflessione su cosa sarebbe successo se Hitler fosse stato ammesso all’Accademia delle Belle Arti, dove venne bocciato due volte: in quella realtà inesistente Goebbels avrebbe continuato a fare il giornalista, Himmler l’agricoltore e Goering l’aviatore. Molto più interessante l’analisi della tecnica oratoria di Hitler, il quale capisce come utilizzare al meglio i microfoni: il fanatismo dei sostenitori è messo in parallelo con quello dei fan dei Beatles, e un simile parallelo viene proposto tra i tifosi che esultano per la vittoria della Francia ai mondiali di calcio con una manifestazione neonazista in Polonia. Hitler intuisce anche le potenzialità del cinema e affida le riprese del raduno oceanico di Norimberga a Leni Riefenstahl: abominevoli nella sostanza, le immagini sono purtroppo efficacissime nella forma e nella capacità di suggestione, e appare illusorio il tentativo di rubricarle come kitsch da parte di intellettuali quali Francine Prose.
L’aspetto più caduco del documentario è il tentativo di costruire un parallelo con Trump, ma su questo punto Amis ricorda con acume che, dopo quasi ottanta anni, «Hitler resiste a ogni possibile comprensione». In questo sposa la tesi di Paul Ricoeur, il quale sosteneva che il male non si può spiegare, perché rappresenta l’assenza stessa della spiegazione, ma soltanto raccontare.