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 2021  agosto 28 Sabato calendario

Gli uomini secondo Nicole Krauss

Da sempre, l’identità di Nicole Krauss fluttua tra due poli, Israele e New York - che è come dire il resto del mondo. Nipote e figlia della diaspora ebrea, i luoghi che hanno accolto i suoi antenati hanno spesso ripreso vita nelle pagine dei suoi romanzi, quattro finora, così come nel nuovo libro, Essere un uomo, che è anche la sua prima raccolta di racconti, tutti bellissimi.
A 18 anni Krauss (che chi non l’ha mai letta continua a definire la ex di Jonathan Safran Foer) ha avuto come mentore Joseph Brodsky, incontrato all’università di Stanford. «È stata la prima persona a trasmettermi il senso di quanto la letteratura potesse essere presa seriamente e di quanto in alto bisognasse fissare l’asticella. A quei tempi scrivevo soprattutto poesie, guidata anche dai suoi consigli tecnici che erano del tipo: "Una rima è più intelligente di te"». La poesia, mi dice da Tel Aviv dove vive in questo periodo, è stata anche la sua personale educazione spirituale perché «mi ha insegnato ad avere una relazione con l’eterno». Quando i suoi due figli maschi erano piccoli, aveva preso l’abitudine di leggergliene alcune prima di dormire: «Era soprattutto il piccolo ad amarle. Chissà, forse perché il suo secondo nome è Amichai, come quello del grande poeta israeliano».
È stato molto diverso scrivere dei racconti?
«Sì: un racconto è come un amante con il quale non devi passare troppo tempo, mentre il romanzo è un matrimonio. Anche il senso del ritmo è diverso: con il romanzo corri la maratona, un racconto invece è come il pattinaggio di figura, quando, dopo il salto, il pattinatore deve atterrare sul ghiaccio in modo perfetto. Sono sport che richiedono l’utilizzo di muscoli molto diversi».
Come ha scelto il titolo, "Essere un uomo"?
«L’idea mi è venuta molto prima di scrivere il racconto omonimo. Da tempo mi stavo avvicinando all’idea di una donna che guarda gli uomini della propria vita, il padre, gli amanti, i figli, e che negli anni accumula questa esperienza. Mi interessava più questo che definire che cosa fosse un uomo».
Che cosa le hanno insegnato i suoi figli che gli altri uomini non le avevano insegnato?
«È una domanda difficile, perché i figli ti insegnano talmente tanto. Crescere dei ragazzi mi ha fatto comprendere la loro fragilità, la tenerezza e la sfida di ciò che la società si aspetta da loro».
Pensa che un movimento come il MeToo abbia trascurato di indagare l’interiorità maschile?
«Un movimento politico, al contrario della letteratura, deve per forza di cose essere riduttivo. Il MeToo è nato contro la cultura dello stupro e le molestie sessuali, non poteva occuparsi di ogni aspetto».
Nei suoi racconti, come nei romanzi, fa un uso molto libero della forma.
«Per me forma e struttura sono importantissime, è attorno a loro che organizzo la mia scrittura. Posso scrivere paragrafi su paragrafi, ma finché non trovo una struttura interessante non c’è vera musica. Quando l’ho trovata, il mondo inizia a cantare. A volte mi sento un architetto che lavora da dentro la casa, con i dettagli: prima metto una porta, poi la attraverso e vedo che cosa c’è dietro. A un certo punto riesco a capire come è fatto l’intero edificio. Lo chiamo il "momento eureka"».
La scrittrice Grace Paley, sublime autrice di racconti, disse una cosa simile.
«Esistono scuole diverse su come funzionino le menti. Alcune lavorano seguendo tracce ben precise, dove tutto deve essere preorganizzato. Altre, come la mia, non scriverebbero mai un libro se sapessero esattamente come dovrà essere. Mi piace improvvisare perché è sia eccitante che pauroso, e mi permette di scoprire cose imprevedibili».
Non è un caso che sia appassionata di Gaga, una danza nata in Israele dove non esistono coreografie o movimento predefiniti.
«Passando così tanto tempo nella mente, muovermi per me è sempre stato un piacere grandissimo. Ballare mi insegna molto sia sul mio corpo, su quanto posso arrivare a espanderlo, sia sulla connessione tra sforzo e piacere: la parte più interessante arriva sempre quando, anche nello sforzo più duro, si riesce a trovare qualcosa di piacevole. Vale anche per la scrittura, soprattutto quando da qualcosa di giocoso diventa una professione e il piacere viene rimpiazzato dall’ansia».
Cosa fa lei in quei casi?
«Spesso nella vita ci capita di non desiderare più le cose che desideravamo un tempo e quello che dobbiamo fare allora è ridefinire i nostri desideri. Trovare di nuovo il motore. Dopo 20 anni che scrivo e pubblico ho capito che questo è una parte del processo».
Una volta ha detto che "lo scrittore pianta la propria tenda proprio sulla linea sottile", che è quella dove stanno le contraddizioni dell’essere umano. Non è stancante, alla lunga?
«Grazie per averlo chiesto, perché in effetti lo è. Entrare dentro alle persone, a me stessa, richiede tantissima energia, è estenuante. Me ne rendo conto ogni volta che inizio un nuovo libro, come adesso, quando ogni mattina mi metto a scrivere e poi il pomeriggio e la sera vivo».
Quando è importante vivere per uno scrittore?
«L’altro giorno mi hanno fatto la domanda che fanno sempre a quelli come me: che cosa consiglia a un giovane scrittore? Mi sono resa conto che, più che leggere e scrivere ogni giorno, la cosa più importante è vivere».
Le chiedono spesso quanto di autobiografico ci sia nei suoi libri. Lei una volta ha raccontato che Philip Roth aveva l’abitudine di iniziare le interviste dicendo: "Tutto quello che accade in questo libro è successo per davvero. Adesso che cosa vuole sapere?". Pensa che la nostra epoca abbia un’ossessione per l’autobiografia?
«Viviamo in una società affascinata dalla costruzione dell’identità e dalla prima persona. Negli ultimi 15 anni poi, con Internet e i social, questa prima persona ha raggiunto il suo apice: è tutto un io io io. Se lo guardiamo da una certa distanza è anche comico, perché in altri momenti della storia chi aveva il tempo per queste cose? È di certo un lusso occuparsene così tanto. E poi mi stupisce sempre come siano sempre tutti ossessionati dalla "verità": questa cosa è "vera"? È un modo di vedere semplicistico, perché chi sa qualcosa di neuroscienze sa che la memoria è in larga parta un lavoro di finzione»
Scrivere è, in un certo senso, una «riconsolidazione» della memoria?
«Quando richiamiamo un ricordo mettiamo in atto un ri-editing del ricordo stesso. Ultimamente i neuroscienziati stanno studiando il fatto che la memoria non sia tanto un meccanismo che registra il passato, ma un qualcosa che serve a sapere come reagire al futuro. In sostanza, la memoria è serva del futuro. Trovo questo cambio di prospettiva molto interessante».
Nel racconto Future emergenze, ambientato nel post 11 settembre, i newyorkesi sono invitati dal governo a indossare della grosse maschere antigas. Non si può non pensare alle nostre mascherine anti covid.
«Capita spesso che la letteratura sembri predire il futuro. Quel racconto l’ho scritto poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle, nell’aria c’era ancora l’odore di bruciato e c’erano moltissime cose di cui ancora eravamo all’oscuro. Come nei primi tempi della pandemia».
Sono passati 20 anni da quei fatti. Qual è il suo ricordo più forte?
«Allora abitavo sopra la FDR Drive, una highway nell’East Side di Manhattan, e ricordo che a un certo punto guardai giù in strada, che era stata chiusa al traffico, e vidi uno sciame di persone ricoperte di cenere che camminavano come fantasmi per tornare a casa propria. Ho anche un ricordo personale. Il giorno dopo l’11 settembre avevo appuntamento per fare un servizio fotografico per il mio primo libro, che sarebbe dovuto uscire la primavera seguente. Sentii la fotografa e le chiesi se fosse il caso di rimandare, ma lei mi rispose di no, che sentiva il bisogno di lavorare. Così andai sul suo rooftop a Downtown, e scattammo quelle foto in bianco e nero. Ricordo perfettamente che in quel momento sentivamo la necessità di superare quel momento, di andare avanti».