La Stampa, 28 agosto 2021
Ugo Nespolo si racconta per i suoi 80 anni
FERRARIS. Ernst Jünger, che è campato sino a 103 anni (dunque ne hai ancora di tempo davanti a te), quando ha compiuto 90 anni, ha detto «la vecchiaia è finita, adesso inizia il tempo dei patriarchi». Per te si potrebbe dire che la vecchiaia non è ancora incominciata: 80 anni e non vederli. Questo non è necessariamente un complimento, e spesso nasconde una critica: 80 anni, e non hai ancora imparato a vivere? Continui a comportarti e a vestirti come un giovane? Il fatto è che gli anni portano leggerezza: una stupidaggine commessa a vent’anni la sconti per decenni, a 80, ma anche a 65, nel mio caso, è un altro paio di maniche.
NESPOLO. Per me il grande modello è il mio amico Gillo Dorfles, vissuto 108 anni, quasi che la morte si fosse scordata di lui. Se è vero che, come diceva Hemingway, l’importante è durare, lui è durato più di tutti, e bene. Pare che a 96 anni, nel giardinetto davanti a casa sua in piazza Lavater a Milano, saltasse certe recinzioni, a mo’ di esercizio atletico. Un’altra volta l’ho incontrato a Torino e mi ha detto che era stato a sciare, verso i cent’anni. E guai a toccargli le valigie, guai a proporgli di portargliele: «Faccio io!». Anch’io per il momento le valigie me le porto da solo, ma alla fine alla vecchiaia tocca pensarci…
FERRARIS. Credo che tu abbia sofferto il lockdown meno di altri, perché hai una casa-studio gigantesca. Quattromila metri quadrati, se non sbaglio. Non voglio con questo scatenare odio sociale nei tuoi confronti dal momento che lavori tutto il giorno, non mi sembra di averti mai visto con le mani in mano. L’aspetto interessante è che una parte significativa di quegli spazi immensi è riempita di oggetti, non solo le tue opere (che orgogliosamente e giustamente rivendichi come oggetti, e non come concetti, come fanno tanti tuoi colleghi), ma di cineprese a perdita d’occhio, di archivi futuristi, di jukebox. Sospetto che il collezionismo sia parte della professione, perché inventare significa non tanto creare dal nulla (come pensano altri tuoi colleghi) ma inventariare, rinvenire, classificare, recuperare e combinare, dunque quanti più esempi si hanno, tanto meglio è.
NESPOLO. Se ho patito forse meno il lockdown non è solo per gli spazi, ma perché ho passato il tempo facendo e «eclettizzando», riempiendo di qualcosa la solitudine e l’isolamento. Non mi sono mai sentito un pittore che muove solo la mano, come Morandi, grandissimo, ma che ha ripetuto gli stessi gesti per decenni, disegnando le stesse bottiglie, e creandosi da solo il proprio lockdown. Poi ho fatto del cinema, ho letto, ho persino teorizzato in un libro uscito da Einaudi, chiedendomi che cosa significhi oggi fare l’artista. E poi ho mancato tante mostre a cui avrei dovuto partecipare, a Madrid, in Cina, in Corea. Ma le ho mancate davvero? Ormai il web sembra averle sostituite. È cambiato il mestiere, è cambiato tutto.
FERRARIS. Diciamo che in questo cambiamento ci hai messo del tuo. L’opera d’arte totale non è solo un sogno wagneriano, oltretutto realizzato ai danni dei fruitori costretti in luoghi predisposti ad hoc per sentire opere lunghissime. È anche un sogno più cordiale, quello, per esempio, di un grandissimo come Mucha, che in Cecoslovacchia (quando esisteva) ha fatto di tutto, banconote comprese, non come falsario ma come designer. Mi pare che le banconote ti manchino, ma in compenso hai fatto cose che Mucha non ha mai fatto, come per esempio gli allestimenti pucciniani. Potresti fare un catalogo di Leporello di tutto quello che hai fatto?
NESPOLO. Il catalogo è questo, con i puntini per generare la vertigine della lista: Opera lirica, una Turandot in prima americana a New York, Don Chisciotte di Paisiello a Roma, Elisir d’amore a Parigi... Teatro: Pierrot sulla luna con Ronconi... Cinema: ho portato in Italia il cinema sperimentale americano... Musica: ho organizzato il primo concerto fluxus italiano con l’occupazione della Gam, e relativo film e, in quella occasione, esposizione della prima opera di Alighiero Boetti... Industria: non so quanti manifesti... L’arte deve uscire dal recinto stretto della figuratività, e deve incontrare il mondo reale. Sto preparando un film, Studio Geist, dove racconto l’eclettismo della factory, dell’atelier in cui lavoro.
FERRARIS. Hai esordito con l’Arte povera, ma presto sei passato al pop, seguendo la via di un altro grande, diciamo così, poliartista, Warhol. Dimmi la verità, a te, come a me, e come a tanti altri, le cose belle piacciono, e non si capisce perché si debba trasformare l’esperienza estetica in una quaresima. E il significato del pop non sta tanto nell’ «andare verso il popolo», l’ultima delle intenzioni di Warhol, ne sono certo, ma nell’inseguire la bellezza. Céline ha scritto che è tanto se del ’900 rimarrà la parola «merda», io sarei molto meno tranchant: rimarrà la bellezza delle produzioni industriali, delle automobili, del design, mentre ho fortissimi dubbi sulla sopravvivenza di moltissima arte pensosa e concettuale, antitetica al realismo socialista ma altrettanto indigesta.
NESPOLO. Il saluto patafisico è Merdre, e io sono faraone patafisico, uno degli ultimi, morto il satrapo Edoardo Sanguineti. E l’industria è per me vincolo, committenza, concretezza, come sempre è stato per l’arte, che ha trovato una ragion d’essere indispensabile nella committenza, che fosse il re, il papa, o magari il padrone della caverna. L’arte con la committenza è una gran cosa, e non solo per ragioni venali, ma per rifiutare un mito romantico e fasullo. Kandinskij non dipingeva in soffitta, ma in salotto con la lobbia in testa, Depero si è espresso al meglio nelle arti applicate, e cosa dire del Bauhaus? Sono convinto che sono le cose che restano di più perché nessuno corre dietro alle teorie, che il più delle volte sono delle trovate.
FERRARIS. Proust diceva che aggiungere teorie alle opere è come lasciare il cartellino del prezzo a un regalo. Tu hai osservato con cura questo principio, ma non ho mai visto un artista leggere e teorizzare quanto te, e se posso tradire un piccolo segreto abbiamo degli incontri conviviali piuttosto regolari dove tu sei l’artista, Piergiorgio Odifreddi il matematico, Alberto Conte il geometra, Gabriele Lolli il logico, Federico Pejretti il divulgatore, Gian Maria Ajani il giurista e io («ahimè», direbbe Faust) il filosofo. L’abbiamo intitolato, ricalcando l’Oulipo, Lungopo, visto che in effetti ci troviamo sulle rive del Po. Magari adesso dirai che ci vieni per compatirci, o per distrarti, eppure sono sicuro che abbia ancora a che fare con la tua arte.
NESPOLO. Ci tengo tantissimo. Un giorno conferirò a tutti voi un diploma patafisico, ne ho l’autorità, e ho voglia di farlo perché oggi è il mondo in cui la creazione è possibile, uscendo dal mondo dell’arte che è asfittico. Un tempo non era così, qualche decennio fa al caffè Guarany in via Po angolo via Accademia Albertina incontravi Casorati padre, Merz, Saroni, Ruggeri, Soffiantino. Oggi il Guarany ha cambiato nome e al Giamaica a Milano vanno i turisti. E tolti pochi amici come Baj o Paolini non saprei con chi passare la serata. E non credo sia un problema solo mio. Con chi si trova Banksy alla sera, posto che esista? O Jeff Koons? Gli artisti vivono davvero la solitudine…
FERRARIS. Ma, diciamo, a te non mancano le conoscenze. Gianni Minà ha il cellulare di Fidel Castro, che ora non gli serve più ma prima era uno status symbol. Tu impressioni noialtri professori lungopodisti raccontandoci dei tuoi incontri con Andy Warhol e Gianni Agnelli, Marcel Duchamp e Trockij… No, forse Trockij no ma gli altri sì, e molti altri ancora. Escludo che sia per smania mondana perché non siamo in un salotto. Ho un’altra ipotesi: è perché ognuno di loro, a suo modo, ha rappresentato un modo di essere creativo, dunque è un modello da cui imparare qualcosa.
NESPOLO. Trockij in effetti no, per ovvi motivi, ma Arturo Schwarz, grande collezionista e gallerista, oltre che autore di Breton, Trockij e l’anarchia sì. E, come sappiamo, uno dei buoni motivi per vivere una vita, specialmente se lunga e ricca di incontri, è vivere per raccontarla.