Linkiesta, 27 agosto 2021
Il fintobiondismo vanziniano della Cirinnà
Non ho niente contro la sinistra, ho molte amiche di sinistra: passano il tempo a lamentarsi della servitù. Però non la chiamano «servitù»: dicono «la signora che mi aiuta in casa», e poi sibilano che ha detto di aver fatto i vetri ma erano ancora sporchi. Il guaio principale dell’esser di sinistra è che non puoi mica dire alla sguattera di sbrigarsi a far splendere quell’argenteria.
Meno male che Corrado Guzzanti c’è, e ci ha negli anni fornito tutto il lessico famigliare necessario a raccontare la sinistra, anche e soprattutto quando fingeva di parlare della destra, permettendoci così di rilassarci e ridere dei Canti dell’Olgiata come le tizie ritratte non fossimo noi.
I canti dell’Olgiata veniva presentato in Aniene (un programma di dieci anni fa che sembra scritto domani) come un canto popolare di destra da contrapporre alle mondine e a Giovanna Marini, ma Guzzanti e i suoi sodali con la parrucca (oggi salirebbero grida d’appropriazione culturale: perché non avete scritturato tre attrici, maschi bianchi, prepotenti, mascalzoni), quei tre erano evidentemente noialtre. Guzzanti ha fatto quel che hanno fatto i Vanzina negli anni in cui erano più in forma: farci credere che io è un altro, farci ridere di noi illudendoci di ridere del diverso da noi.
«La donna di servizio non fa mai bene i vetri, e come esco di casa va a guardare la tv», lamentava la signora dell’Olgiata, il cui ritornello era «non ti pago i contributi finché non hai imparato che cos’è la servitù».
L’altro giorno m’hanno raccontato che la storia della cameriera coi contributi non pagati dalla Boldrini non era vera, era una calunnia architettata da un altro ex dipendente della Boldrini. La prima cosa che ho pensato è stata: ma quel che conta è che fosse verosimile, e lo era, perché non dico che rossi o neri siano uguali, ma ugualmente figli del vanzinismo sì. La seconda cosa che ho pensato è stata: ammazza come le vogliono bene, gli ex dipendenti.
Sempre di recente mi dicevano d’un’altra politica di sinistra che schiavizzerebbe il proprio assistente facendolo lavorare giorno e notte e festivi e feriali, epperò l’avrebbe contrattualizzato per un solo giorno. Ci ho ripensato ieri, quando la vicenda dei ventiquattromila euro ha raggiunto il suo apice drammaturgico.
I rotoli di banconote trovati in una cuccia di cane nei possedimenti di Monica Cirinnà facevano ridere, certo. Il marito della Cirinnà (Esterino Montino, sindaco di Fiumicino con la url social senatoremontino) che scriveva su Facebook che ridere di loro era gravissimo, non solo in questo modo si suggeriva a chi trovasse soldi misteriosi di non chiamare la polizia per non essere poi irrisi, ma si rischiavano anche querele («Le querele sono già pronte (staff)», si leggeva tra le risposte ai commenti FB, tutti molto seriosi e tutti firmati «(staff)»: la donna di servizio non fa mai bene i vetri, e come esco di casa va a commentare su Facebook), anche lui faceva riderissimo.
Ma niente era ancora arrivato ai livelli dell’incredibile intervista che i due hanno dato a Tommaso Labate, uscita ieri sul Corriere.
Ricopio, perché nel caso delle opere d’arte la parafrasi è sempre scempio: Dante va letto in versi.
«Ero già nei pasticci di mio, nelle ultime settimane. Nei pochi giorni di ferie, cinque per la precisione, sto facendo la lavandaia, l’ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all’altro. Volete sapere il motivo? Mi ha telefonato un pomeriggio e mi ha detto, di punto in bianco: “Me ne vado perché mi annoio a stare da sola col cane”».
C’è tutto, in queste righe di sommo capolavoro. C’è l’eroismo di chiamare la cameriera «cameriera». C’è la cattiva della storia tratteggiata in mezzo rigo: una che non vuole stare col cane – che schifo, che immoralità, che poco spirito del tempo (l’ultima traccia del disco dei Canti dell’Olgiata, un disco che non so perché Corrado Guzzanti non incida davvero, s’intitolava “Hai fatto ammalare il cagnetto Fifì”). E infine, ma principalmente, c’è una polaroid della sinistra come non se ne vedevano da quando la ministra Guidi venne intercettata mentre diceva «non mi puoi trattare come una sguattera del Guatemala».
Ma il fintobiondismo vanziniano non finisce qui, perché la senatrice Cirinnà ritiene di dover spiegare a Labate che questa cuccia deposito di Paperone loro non la frequentavano mai, trovandosi essa molto distante in quella che lei chiama «la proprietà» (la Cirinnà è evidentemente convinta di vivere in Io ballo da sola, mentre noi mortali neanche possiamo rivederlo, non trovandosi il film di Bertolucci su nessuna piattaforma, il che forse è un bene perché è un attimo l’immedesimazione mitomane e poi ci ritroviamo tutti a dare interviste sui dettagli delle nostre proprietà nelle campagne toscane).
La similitudine con cui la senatrice ritiene di spiegare all’elettorato che la cuccia è lontana da casa non è l’ampiezza d’uno stadio o altro dettaglio ricevibile da un lettore medio del Corriere, macché. È questa: «Prendiamo il Senato: faccia conto che la casa sta alla buvette e la cuccia al bar di Sant’Eustachio». (Ti pareva che non avesse come punto di riferimento il caffè più sopravvalutato d’Italia).
Insomma, è il sottotesto della Cirinnà: mica mi avrete preso per una barbona che ha così pochi metri quadri da avere la cuccia del cane vicino casa. Mica penserete, trasecola implicitamente la Cirinnà, mi metta nei guai per ventiquattromila miserabili euro. («Poco o nulla purtroppo si è venuto a sapere dell’animale, cui in accentuata antropomorfizzazione toccherebbe la titolarità del denaro», ha scritto Filippo Ceccarelli, il più bravo di noi che ci concentriamo sui dettagli).
Certe volte non so se mi manchi più Guido Nicheli o Carlo Vanzina. Se almeno i vivi lavorassero, e Guzzanti ci desse un nuovo Aniene. Se posso, suggerisco la Cirinnà per il ruolo che, nell’Aniene d’allora, ebbe Scilipoti. Non devi neanche scrivere testi originali, Corrado.