Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2021
Dove si creano le protesi degli atleti paralimpici
Fra la Via Emilia e le medaglie paralimpiche c’è Vigorso di Budrio. Qui, a nord est di Bologna, nella placida campagna di frumento trebbiato, si distende la teoria di piccole palazzine che formano il Centro protesi Inail. Era un sanatorio di fine ’800, oggi è la terra promessa dove invalidi sul lavoro e invalidi civili cercano di nuovo la vita e, magari un trionfo. Perché è qui che vengono molti atleti dell’Italia in gara a Tokyo.
Il Centro, nei suoi lunghi corridoi, nelle sale riabilitative e negli ambulatori, accoglie ogni anno più di 11mila pazienti: si spostano in carrozzina, altri provano le nuove protesi con passi ancora incerti, alcuni aspettano le visite mediche. Gregorio Teti è il direttore dell’area tecnica: «Il dipartimento si compone di una divisione per la ricerca istituzionale, di un ambito di produzione con sedi a Vigorso, Roma e Lamezia Terme, e di un’area di sperimentazione per le attività di ricerca applicata. In questo settore c’è il filone dello sport, in cui si caratterizzano processi particolari per una sperimentazione più spinta». Proprio come avviene nei reparti corsa delle case automobilistiche: si fa ricerca, si creano prototipi, che, testati, sono avviati a una produzione su scala più ampia e destinati alla vita di ogni giorno.
A Vigorso arrivano gli atleti – ora sono una ventina quelli della Nazionale seguiti al Centro, otto dei quali hanno ottenuto il pass per Tokyo – in base a un accordo con il Comitato italiano paralimpico (Cip) e «il loro percorso non differisce da quello di ogni altro paziente», spiega Andrea Cutti, responsabile della ricerca applicata. C’è una presa in carico multidisciplinare da parte di un’équipe allargata che coinvolge preparatore atletico, tecnici ortopedici, ingegneri, medici e psicologi per capire richieste funzionali e obiettivi dell’atleta: «Lavorare con gli sportivi – prosegue Cutti – è molto coinvolgente, hanno richieste alte e mentalità competitiva, puntano solo ai risultati, senza ascoltare troppe ragioni. Ti chiamano anche la domenica mattina e la nostra sfida è trovare sempre una soluzione a ogni dolorino che sentono correndo, a ogni sensazione non fluida nel movimento». Perché i risultati arriveranno quanto più si rispetta il corpo dell’atleta: «Quando si costruisce la protesi, si cercano sul mercato i componenti con migliore resa, massima performance e totale rispetto della biomeccanica dello sportivo che non va sovraccaricato. Più simbiosi c’è fra atleta e protesi, migliore sarà la resa. Vale quanto accade nella F1, nel legame macchina-pilota: a parità di prestazioni della macchina, a fare la differenza è il pilota che condivide con i meccanici dubbi e sensazioni, come fanno i campioni con noi».
Ogni protesi diventa così un ingranaggio frutto di mille, successive approssimazioni verso la soluzione migliore per la quale «gli atleti dicono grazie con sorrisi immensi e avvolgenti silenzi», confessa Cutti. Si parte dall’invasatura, la parte più importante della protesi, l’abito sartoriale di ognuno, che viene “calzata” sul moncone, si aggiunge un “ginocchio” e un “piede”. Quasi un puzzle, ma è la vita che cambia e trova nuove strade: «Gli ingegneri sono bambini che amano ancora tantissimo giocare con il Lego», sorride Simona Amadesi che da trent’anni cura la comunicazione del Centro. E sanno rimettere in piedi chi è precipitato nel vuoto. «Componentistica e materie prime impiegate in una protesi sportiva valgono intorno ai 10-12mila euro – spiega Teti – ma il costo è di sette volte superiore perché comprende lo sforzo di un intero team. Il Centro Inail, che è un ente pubblico, può permettersi questo impegno perché l’istituto mette a disposizione degli assistiti importanti risorse economiche: così, studiamo, sperimentiamo, ipotizziamo, anche grazie a collaborazioni con il Campus biomedico di Roma, l’Università di Padova, il Politecnico di Milano, l’Istituto italiano di Tecnologia o la Scuola Sant’Anna di Pisa».
Poi, tutto inizia e finisce nei laboratori, nelle officine, nelle nuove sale con robot e stampanti 3D, fra artigianalità antica e high-tech spaziale. In ogni protesi ci sono polvere di gesso (utilizzata per il calco per l’invasatura) e materiali che vanno sulla Luna, come la fibra di carbonio o il moderno carbonio preimpregnato dall’elevata capacità di flessione e usato nelle scocche della F1. Senza dimenticare la forza di certe intuizioni che possono cambiare le performance: «Le protesi con cui correranno i nostri azzurri sono rivoluzionarie – spiega Cutti, con un certo orgoglio -. Tradizionalmente la coscia degli amputati era flessa di 5 gradi, ora abbiamo portato questa flessione a un più naturale 12-14%: vedrete l’eleganza, la compostezza nella corsa degli azzurri perché subiranno meno carico sulla schiena e meno beccheggio del tronco».
Nei corridoi c’è un gran silenzio – sarà l’estate -, nei laboratori il viavai di un alveare operoso, alla reception qualcuno che aspetta il proprio turno: il Centro, con i suoi 300 dipendenti e i suoi 90 posti letto, ha sessant’anni e già nel 1965 finisce sui giornali internazionali grazie al professor Johannes Schmidl, padre della protesi mioelettrica. Poi, dal 1992 l’impegno anche con gli sportivi e le prime medaglie ad Atene 2004 con Stefano Lippi e Roberto La Barbera nel salto in lungo. Oggi il Centro è la Nasa della protesica mondiale (basti ricordare il progetto da 750mila euro con il Dipartimento alla Difesa Usa per studiare come evitare errori umani nella realizzazione delle invasature), ha in bacheca la “gamba” di Martina Caironi, oro a Rio 2016, e mette le ali agli atleti azzurri perché loro sono l’estate del mondo e la libertà. Oltre ogni ostacolo, oltre ogni pregiudizio.