La Stampa, 27 agosto 2021
In nome della pausa caffè
Quattro minuti e 45 secondi. Tanto impiega Eduardo De Filippo nella sua commedia capolavoro Questi fantasmi! a illustrare l’esegesi della pausa caffè. Più o meno il tempo che ci vuole a entrare in un bar o infilare la chiavetta nella macchinetta che distribuisce bevande negli uffici, e sorseggiare quel liquido «color manto di monaco» che si esalta nella ceramica, gongola nel vetro e non dispiace nemmeno nel bicchierino di plastica. Meno di cinque minuti... È dovuto anche a questo il successo della pausa caffè, amata dai cantanti, celebrata al cinema: si può onorare più o meno sempre, sa essere veloce e poco impegnativa quanto rilassante e ristoratrice. «Fonte di creatività», come dice alla Stampa Paolo Crepet, psichiatra, sociologo ed educatore. Poi, spesso, succede che in quel bar sotto casa, dove vai tutte le mattine, o in quello a due passi dall’ufficio che col caffè serve anche una spolverata di cioccolata, o nel corridoio accanto alla scrivania si incontri il vicino, l’amico, la collega. A volte un personaggio famoso. Allora la pausa caffè diventa occasione di confronto, scambio affettuoso, battuta ironica, selfie col vip. E non sarà un caso che molto spesso quella «tazzulella ’e cafè» – cantata e decantata da Pino Daniele – sia anche il pretesto per un primo abboccamento, quella proposta un po’ en passant che si fa alla persona che ci interessa. Perché in fondo, ci vogliono solo 5 minuti, difficile dire di no.
Ma attenzione: a volte capita che il break duri di più, troppo secondo alcuni, che diventi un appuntamento fisso, e che non sia giustificata. Soprattutto se ad approfittarsene sono pubblici impiegati che abbandonano il posto di lavoro, recando un danno all’utenza. È così che la pausa caffè è finita in tribunale, oggetto di polemiche, rimpalli e discussioni giuridiche. Il casus belli riguarda due dipendenti comunali accusati di falsa attestazione fraudolenta della presenza (si ricorderà la lotta di Brunetta all’assenteismo e la sua riforma del 2009, quando era ministro per la Pubblica amministrazione): i due impiegati si erano allontananti dall’ufficio, il primo per un caffè, il secondo per recarsi al tabaccaio, ed erano stati pizzicati durante un controllo delle forze dell’ordine. I giudici di primo grado del tribunale e poi la Corte d’appello hanno confermato il reato, soffermandosi sulla futilità dei motivi delle due «fughe» dall’ufficio, e ponendo l’accento sul fatto che quelle pause non erano registrate dal timbro del cartellino. I due imputati, secondo le toghe, avevano dichiarato che quei caffè erano una prassi e che il superiore era informato, giustificazioni considerate futili. Ma la Cassazione, pronunciandosi di recente, ha corretto un po’ il tiro dei colleghi del primo e secondo grado di giudizio. Proprio gli aspetti della prassi e tolleranza dei capi, secondo i giudici supremi, dimostrano che l’intento dei due impiegati non è criminale. Certo, ogni episodio è se stante, ma così facendo si attenua la posizione di chi esce per la pausa. In ogni caso, il reato resta, ma è punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante per la Pubblica amministrazione.
Insomma, una bella bega. Che riapre il dibattito. E crea scintille. «Non scherziamo – tuona Crepet – La pausa caffè è motivo di creatività. Capisco che il burocrate statale, non avendola, non sappia che cosa sia. Ma che mondo è, che cos’è questo grigiore? Una punizione a chi beve caffè? Scopriamo le carte: se il futuro è stare in smart working con pausa caffè libera, e questo dal punto di vista del giuslavorista è una cosa positiva, allora dico che siamo un popolo di pazzi, che rovinerà la storia del Paese. Se crei difficoltà a chi lavora in presenza, se l’ufficio diventa una sorta di carcere dove non puoi neanche fare la pipì se no chissà che succede, e dall’altra parte sul piatto d’argento c’è smart working, allora le cose si mettono male. Steve Jobs elogiava le pause in cui il pensiero è libero e parlava della creatività. Che è quello spazio di lavoro non burocratizzato, non finalizzato a qualcosa. Quando sei al desk non puoi lavorare con il tassametro, e non devi essere pagato solo in base ai minuti in cui sei seduto. Quando ti alzi e parli con Giovanna che ti dice: “ho letto un libro che m’ha emozionata”, oppure “ho visto un film che m i ha aperto la testa”, e a te viene un’idea, quello è un momento d’oro. Ma i giudici lo capiscono? La Pubblica amministrazione viene danneggiata dal lavoro a distanza non dalla pausa caffè. Tutto a vantaggio dei computer. E a rimetterci sono i giovani – continua il saggista – Renzo Piano chiamava la creatività il «ping pong»: hai una idea, la butti dall’ altra parte, un altro la migliora, la ributta di là, fa avanti e indietro, e cresce. Studino Renzo Piano i giudici! Un vecchio prof dell’ospedale a Londra diceva: “One man alone means nothing”, da solo l’uomo non è nulla. Ma insieme, davanti a un caffè, si possono fare grandi cose».
Ah, che bell’ ’o cafè, pure in carcere ’o sanno fa, canta De André. Cremosa coccola quando espresso al bar, magia a casa con la moka che borbotta dolcemente, tradizione al rallentatore se a partorirlo è la macchina napoletana: il caffè ci piace in tutte le salse, molti popoli ce lo invidiano. Un cerimoniale da tutelare: il ministero delle Politiche agricole ha formalizzato la candidatura del Rito del caffè espresso italiano a patrimonio culturale immateriale dell’umanità e in subordine quello della Cultura del caffè napoletano (sarà la ricetta della mamma di Ciccirinella?). Un momento topico che può arrivare a salvarti l’esistenza, se si pensa a Max Gazzè che ne La Vita com’è non la fa finita soltanto perché è pronto un altro caffè. E che profumo... Eduardo docet: vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo?