La Stampa, 27 agosto 2021
Il Califfato, il nemico permanente
Erano ufficialmente annientati, i grandi e piccoli sensali del nuovo Califfato universale, quelli che vivono di guerra santa permanente. Li avevamo dimenticati gli untorelli del terrore planetario, braccati dai curdi e dalle bombe americane, ridotti a poche decine di dispersi tra i deserti di Siria e Iraq. Uccisi i capi, perdute le città della loro feroce recita statalista, sopravvivevano nell’attizzare minuscoli conflitti locali, poco più che storie di predoni e di vendette claniche. Per cercare i loro attentati si doveva scendere in ininfluenti zone del mondo: Mozambico Sahel Nord della Nigeria. Vittime che non ci interessavano, l’unica precisazione tranquillizzante era: non ci sono stranieri. Un mondo residuale di periferici, di isolati, di vinti.
Sfiorato l’orlo dell’abisso si distribuivano le medaglie, si brindava all’annientamento del Mostro. Gettiamo l’ancora, abbiamo vinto, Isis non c’è più, garantivano l’Intelligence e gli esperti con alta sartoria speculativa: sparite le bandiere nere, le parate di pick-up, le esecuzioni scenografiche, le minacce universali. In fondo una bizzarra sigla di gente sprofondata nel passato e con sulle labbra solo parole di un tempo che fu. Prevale la tesi secondo cui il Male è un incidente.
Un altro miracolo immaginario, l’ennesimo. Basato sulla idea decrepita che senza un territorio il Califfato sparisce. Mentre il Califfato è una Idea che esiste, resiste e nuoce sotto varie forme. L’esperienza doveva insegnarci che la rivoluzione islamica sboccia silenziosamente come un fiore di ferro, ha con sé una incoercibile facoltà di disfare. L’arma vincente della jihad planetaria è appunto la sua moltiplicazione. Non ci sono teatri di guerra santa periferica. La satanizzazione dell’Occidente e dell’islam per loro falso e bugiardo permette una aggressione globale, imperdonabile, definitiva. Che si ingozza degli errori degli altri, inghiotte avidamente le sostanze tossiche seminate da noi in varie zone del pianeta, distribuisce il caos e lo accudisce in un miscuglio di tradizione e modernità. Una strategia in cui non ci sono sconfitte definitive, solo ritirate, riposizionamenti, occasioni di nuove imboscate, bersagli ancora più ghiotti. Si scompare, il califfato diluisce in una impalpabile guerra universale cercando un nuovo fronte. Il soldato occidentale combatte per ciò che è, l’integralista di Isis lotta per essere. Non è una sfumatura, ma ci sfugge.
Non li vedevamo più perché cercavamo di non vederli. Viviamo nell’apparenza e dell’apparenza. E loro erano a Cabo Delgado quasi infondo all’Africa, nell’immenso Sahel, nel golfo di Guinea a far bollire vecchie miserie, a far lievitare l’odio, ad arruolare altri kamikaze e guerrieri. Non abbiamo ancora compreso che non si interessano alla estensione dei territori, interessano loro gli uomini, le obbedienze fino alla morte, le anime. Una demonicità senza frontiere.
Erano da anni in Afghanistan, un luogo perfetto: occidentali in evidente ritirata, un Islam dove l’eruzione fondamentalista è antica quanto quello dei wahabiti d’Arabia, e poi armi guerra miseria. Gli odi non sono latenti o tiepidi, non c’è neppur bisogno di scaldarli al calor bianco. È vero: i taleban sono guerrieri di un dio feroce ma tenacemente locale, le guerre universali a loro non interessano, è sufficiente cacciar via lo straniero. L’alleanza con gli “arabi”, gli uomini di Bin Laden, in passato è costata loro la distruzione. Ma gli americani non hanno mai fatto distinzioni, bombe su tutti, la guerra al terrore è bianco e nero, niente sfumature.
Il califfo Al Baghdadi non voleva alleati fedeli, come tutti i totalitarismi nascenti voleva sudditi che prestassero giuramento di obbedienza. E i taleban non obbediscono a nessun straniero. Ma Isis sa leggere la realtà locale, ricama sui medesimi schemi: i taleban litigavano, ferocemente, per il potere, bastava approfittarne. Gli scontenti, gli sconfitti, i duri erano pronti a convertirsi a una causa ancora più grande, alle loro esibizioni di calcolata efferatezza. Accanto agli uzbechi ai ceceni ai pachistani sotto le bandiere nere ecco spuntare le reclute afgane. si staglia a destra dei taleban un temibile concorrente avido e senza scrupoli mentre noi cianciamo di taleban moderati o oltranzisti. I taleban vogliono la partenza degli americani, l’Isis ha bisogno che restino perché è solo nella guerra permanente che le occasioni possono moltiplicarsi, la loro jihad restare viva. E lasciare l’Occidente tra un passato in esaurimento e un avvenire angoscioso.