Dell’influenza culturale dell’India — Buddhismo in Cina e Giappone, Induismo e Sanscrito nell’Asia del sud-est e numeri e matematica in Occidente — tratta il libro su cui sta lavorando, intitolato The Golden Road , che termina con Fibonacci che porta i numeri indiani a Pisa e in Sicilia dall’Algeria e dal mondo arabo dove è cresciuto. A Dalrymple abbiamo chiesto di raccontarci il suo rapporto con Chatwin, in occasione dell’omaggio che il Festival della Letteratura di Viaggio farà allo scrittore inglese il 21 settembre alla Casa del Cinema di Roma con la proiezione di due film di Werner Herzog da lui ispirati, Nomad e
Cobra Verde .
Cosa ha rappresentato per lei Bruce Chatwin?
«Negli anni ’80 e ’90, quando avevo 20-30 anni, volevo essere uno scrittore di viaggio. La letteratura di viaggio era la mia vita e la mia ossessione. Passavo la vita in giro, spedizioni di mesi con lo zaino in spalla per vedere il mondo. A quei tempi Chatwin era una figura di grande ispirazione per me. Era un eroe, un modello letterario e di vita. I suoi libri erano magnifici esempi di prosa che dimostravano quanto la letteratura di viaggio potesse essere sofisticata, intelligente, affascinante. Era un esteta, un letterato, ma anche un esperto di arte contemporanea, musica, balletto. Sembrava essere stato ovunque e aver incontrato chiunque, dall’Afghanistan al Mali, al Nord Africa. Ora sono uno storico, di sicuro non faccio lo stesso tipo di viaggi che facevo prima. Ho trovato la mia strada ed è una strada diversa».
Ha avuto l’occasione di incontrarlo?
«Avevo 21 anni. Ero apparso sui giornali perché ero appena tornato dall’Asia seguendo la via di Marco Polo verso Xanadu. Un amico comune mi invitò a pranzo, al St.
James’s Club di Londra. Arrivai e con lui c’era Chatwin. Fu un momento emozionante, anche di trasformazione per me. Bruce fu molto gentile e generoso. Ricordo in particolare un consiglio straordinario, sul mio primo contratto editoriale, che non seguii perché non ero ricco abbastanza: "Non accettare un anticipo da un editore, perché sarai in debito con lui. Se riesci scrivi il tuo libro, con i tuoi tempi e ritmi, e quando sei pronto pubblicalo". Non devi mai avere fretta, quel che conta è che il libro sia il migliore possibile».
All’apice del successo, fama e riconoscimento erano molto vasti. E oggi, a oltre trent’anni dalla morte?
«Una delle cose peggiori che possano capitare a uno scrittore è morire. Una volta che non produci più nuovi libri, non si scrive più di te, il tuo ricordo svanisce. E anche la tua letteratura. Se sei un grande scrittore i libri sopravvivranno e continueranno a essere stampati, ma in modo più sommesso. Tra chi legge letteratura di viaggio, Chatwin è ancora molto apprezzato. Ma quella letteratura è meno popolare di trent’anni fa. Se Bruce fosse ancora vivo, chissà cosa produrrebbe oggi. Credo fosse solo all’inizio del suo percorso, che stesse iniziando a produrre i grandi libri che avrebbe potuto produrre.
Mi rattrista che quei libri non siano mai stati scritti».
Tra i suoi cinque libri quale preferisce?
« In Patagonia rimane il mio preferito. Sopravvivrà come uno dei più grandi libri di viaggio di tutti i tempi. Era estremamente originale e lo rimane anche oggi, scritto meravigliosamente e cesellato finemente, un capolavoro misterioso, una strana gemma.
Così asciutto, economico, come le opere di Calvino. Hanno la qualità della brevità, della sorpresa, dell’eccentricità, della genialità».
È anche lei colpito da quella forma di irrequietezza che Chatwin dichiarava di avere?
«Non lo sono. Anche da giovane ero in disaccordo con Bruce su questo punto. Io viaggio perché sono attratto dai luoghi. Chatwin diceva di essere spaventato dal rimanere in un luogo, era spinto ad allontanarsi da casa piuttosto che sentirsi attratto da qualche destinazione.»
La condizione di uno scrittore come lei sembra sospesa tra due figure: lo storico e il letterato.
«Prima di avere figli scrivevo libri di viaggio. Dalla seconda metà dei miei trent’anni in poi ho scritto quasi esclusivamente libri di storia, ho viaggiato molto per questi libri, visitando tutti i luoghi di cui scrivo, in Afghanistan, India e Pakistan.
Ma non si tratta di me, della mia storia, sono opere di storia su personaggi storici. Non scrivo più in prima persona e l’unico libro di viaggio che ho scritto intorno ai cinquant’anni anni è Nove vite , in cui compaio solo pochissime volte, discretamente, di sfuggita, sullo sfondo, nell’ombra. In un certo senso questo è "anti Chatwin", l’opposto di quanto faceva lui. Nei libri di viaggio di Bruce, lui è sempre presente, è sostanzialmente il suo viaggio, il suo tour».
Cosa pensa del confine tra fatti e fiction? Alcuni critici sostengono che Chatwin a volte inventasse.
«Da storico mi batto per l’accuratezza. Non si può giocare con la verità. I fatti sono centrali.
Sicuramente cerco di raccontare una storia in un modo che sia attraente, ma è non-fiction. Non invento, non è un’opzione. Credo che il nome di Chatwin sia erroneamente associato all’inventare la verità. Quello che faceva era escludere delle informazioni, tralasciare delle cose, per esempio tutta la storia della sua omosessualità è qualcosa di cui notoriamente non ha scritto o accennato. Allo stesso modo, se si guarda In Patagonia, a volte si sposta per centinaia di miglia tra un capitolo e l’altro, ma non parla del viaggio che ha fatto.
Selezionava, ma non è lo stesso che inventare».
Nell’era dei social media e Google Earth, quale ruolo gioca ancora la letteratura di viaggio?
«Enorme, perché la buona letteratura di viaggio interpreta un luogo. Se si vuole capire l’India si possono leggere tutti i resoconti governativi sul Pil, le attività economiche, il salario medio, eccetera. Ma questo non insegnerà la verità sull’India. Dirà solo metà della verità. Un buon libro di viaggio darà un’idea molto più chiara della complessità della sua cultura, arte e letteratura, della vita intima della sua gente».