Avvenire, 26 agosto 2021
A Londra gli studenti universitari vogliono prostituirsi
Prostitute come cameriere, hostess o commesse. Un lavoretto come tanti, per questo da «normalizzare», necessario «solo» a pagarsi gli studi in medicina all’Università. Va in questa direzione la mozione sollecitata dalle associazioni studentesche britanniche che, a ottobre prossimo, verrà discussa all’assemblea generale della British Medical Association (Bma), l’istituzione ultracentenaria che rappresenta nel Regno Unito quasi 160mila dottori.
Non è la prima volta che i membri della Bma si ritrovano a vagliare una proposta simile. Nel 2017 ci provò Khalil Secker, giovane specializzando in medicina di urgenza, ma allora il documento in cui chiedeva ai colleghi di aprire alla «piena depenalizzazione» della prostituzione e di schierarsi al fianco delle associazioni legate all’industria del sesso, come English Collective of Prostitutes e Sex Worker Open University, fu respinto. In autunno, il nodo tornerà al pettine. Oltremanica, va precisato, offrire prestazioni sessuali in cambio di denaro non è un reato. Illegali, però, i postriboli, induzione e sfruttamento della prostituzione.
Le studentesse che «si vendono» nel proprio appartamento, che la sera si spogliano nei locali o che intrattengono i clienti in chat erotiche, dunque, non incorrono in alcuna sanzione. Da un punto di vista della legge. Dal campus potrebbe però arrivare un richiamo disciplinare o una minaccia di espulsione. Reazioni, evidenzia una ricerca del 2015 condotta dall’Università di Swansea, motivate più che altro dalla necessità
di difendere «la reputazione e la professionalità » dell’accademia.
L’anno scorso, l’Università di Leicester ha lanciato un vero e proprio vademecum per gli studenti impegnati nell’industria del sesso a pagamento con tanto di tabelle a chiarire cosa è lecito fare, cosa non lo è. Tra le raccomandazioni c’è anche quella, ispirata alla gestione dei casi di omofobia, a segnalare eventuali episodi di discriminazione o aggressione.
Le statistiche dell’Università di Swansea parlano di circa 100mila casi di prostituzione “regolare” femminile e maschile nei campus britannici, il 5% del totale, ma il dato potrebbe essere sottostimato. Le associazioni studentesche prevedono che la crisi economica innescata dalla pandemia di Covid-19 avvicinerà al settore un numero sempre crescente di universitari, soprattutto tra quelli delle facoltà di medicina che, offrendo corsi più lunghi rispetto agli altri, chiedono un investimento economico molto impegnativo (circa 9.250 sterline all’anno per almeno un quinquennio). Mai come quest’anno, va aggiunto, tanti sono gli studenti poco abbienti che, licenziati dalle scuole superiori con il massimo dei voti, potranno avere accesso alle facoltà più ambite (e care).
Chiedere alla Bma di «supportare» coloro che ricorrono alla vendita del proprio corpo per arrivare alla laurea può essere considerata come una provocazione intesa a ottenere dalle autorità più borse di studio. Ma i rischi legati alla «normalizzazione» della prostituzione non vanno sottovalutati. La lobby dell’industria del sesso, denuncia la scrittrice femminista Julie Bindel al “Daily Mail”, ha dato alla vendita del corpo un «tocco di glamour», ha diffuso la «bugia che si tratta solo di un lavoro ». I giovani, ribadisce, «dovrebbero essere tenuti al riparo dallo sfruttamento, non condotti nella bocca del leone».