Avvenire, 26 agosto 2021
Clonazione umana? Svanita
Poco più di venticinque anni fa nell’Istituto Roslin a Edimburgo, in Scozia, nasceva la pecora Dolly, il primo mammifero clonato. Era il 5 luglio 1996. Il fatto fu reso pubblico nel febbraio successivo con un articolo sulla rivista scientifica
Nature, con un’eco mondiale: una svolta per la scienza, a partire dalle aspettative della medicina rigenerativa, e una discussione pubblica planetaria sulla clonazione, paventando come ormai prossima quella umana.
I l venticinquesimo anniversario, però, è passato inosservato, con le cronache internazionali segnate da Covid-19 e le italiane in quei giorni dalla morte di Raffaella Carrà. Di quella che fu salutata come una conquista epocale sembra essere svanita la memoria. È sicuramente un evento storico che ha aperto innumerevoli e importanti prospettive dal punto di vista scientifico, stimolando nuove vie di ricerca; al tempo stesso, però, tante le promesse e previsioni disattese, a partire dalla efficacia della tecnica con cui la pecora Dolly fu fatta nascere: il trasferimento nucleare. Una modalità di riprogrammare cellule adulte, già differenziate: farle ’tornare indietro’ fino a un primissimo stadio, quando sono ’bambine’, ancora indifferenziate. L’idea era guidarne selettivamente lo sviluppo per ottenere cellule nuove, diverse da quelle iniziali e quindi nuovi tessuti e organi. Un obiettivo che sembrava a portata di mano, tanto più due anni dopo, nel 1998, quando è stata sviluppata la prima linea di cellule staminali derivate da embrioni umani. La stessa metodica della pecora Dolly, applicata all’umano, avrebbe consentito la creazione di un essere umano clonato. L a comunità scientifica inventò una doppia espressione: ’clonazione riproduttiva’, per indicare la formazione di un embrione clonato al fine di trasferirlo in utero e farne nascere un bambino, e ’clonazione terapeutica’, cioè lo stesso procedimento finalizzato a ricavare dall’embrione le preziose cellule staminali ancora indifferenziate, e poi decidere in quale direzione farle sviluppare (cellule cardiache, del sistema nervoso, etc.). Per raggiungere questo secondo obiettivo l’embrione viene distrutto quando ha pochi giorni di vita. La doppia espressione era funzionale a sdoganare la clonazione: tutto il mondo era contrario – almeno a parole – alla creazione di cloni umani, ma era più facile consentire la medesima ricerca bloccandola prima di trasferire in utero gli embrioni clonati.
La tesi dei sostenitori di questi studi era che formare embrioni, manipolarli e distruggerli avrebbe aumentato le conoscenze necessarie a sconfiggere malattie terribili; d’altra parte a quello stadio la loro umanità non è tangibile, il tratto umano non è riconoscibile sotto l’obiettivo del microscopio: mettere da parte la loro appartenenza alla specie umana è più facile.
P er rendere ancora più accettabile l’utilizzazione di embrioni umani a fini di ricerca si è aggiunta un’altra categoria, gli embrioni ’sovrannumerari’: quelli formati per la fecondazione assistita e non più richiesti dai genitori, quindi lasciati indefinitamente nell’azoto liquido. È chiaro che gli embrioni ’sovrannumerari’ non sono clonati, ma nella discussione pubblica è facile sovrapporre i piani parlando di tutto questo insieme, e chiedere ’la ricerca sugli embrioni’ avendo all’orizzonte, sempre e comunque, terapie per ma-lattie inguaribili. Immensi i benefici prospettati per altrettanto immensi investimenti in tutto il pianeta, insieme a una narrazione pubblica che parlava del mondo scientifico uniformemente orientato per l’aumento della conoscenza, e quindi per la ricerca che distrugge gli embrioni, e una variegata umanità retrograda e dogmatica, contraria al progresso scientifico e quindi in difesa degli embrioni. U na narrazione che però ignorava, volutamente, la voce di tante donne, preoccupate dello sfruttamento mondiale che si profilava: per la ’clonazione terapeutica’ erano necessarie grandi quantità di ovociti, che possono essere prodotti solo da donne giovani stimolate ormonalmente e poi sottoposte a intervento chirurgico, per il prelievo (l’attivista Sarah Sexton calcolò che per ottenere un kit personalizzato
di cellule staminali per ogni malato di diabete nel Regno Unito, escludendo tutte le altre patologie, avrebbe dovuto donare i propri ovociti fra un terzo e la metà delle giovani donne britanniche). Un percorso pesante, che è disposta ad affrontare solo chi ricorre alla fecondazione assistita per avere un figlio, ma difficilmente per ’donare’ i propri ovociti a un laboratorio di ricerca. Solo un pagamento adeguato potrebbe motivare la ’donazione’.
I sostenitori della ricerca che crea e distrugge gli embrioni umani hanno cercato di silenziare questo dibattito, in nome di una poco credibile libertà delle donne di vendere parti del proprio corpo: una strategia che si è dimostrata un autogol, alla luce di quanto accaduto in quella che viene ricordata come la più grande frode scientifica del secolo, quando il veterinario coreano Hwang Woo-Suk dichiarò di essere riuscito, primo al mondo, a realizzare la clonazione terapeutica, pubblicando sulla rivista Science due articoli, nel 2004 e nel 2005. Nel secondo si parlava di ben 11 linee cellulari clonate. E fu proprio la questione dell’origine degli ovociti ad avviare l’inchiesta che poi svelò lo scandalo: femministe coreane organizzate nella coalizione ’Solidarity for Biotechnology Watch’ misero pubblicamente in dubbio la volontarietà delle ’donazioni’, e in effetti si scoprì che Hwang aveva pagato le donne, anche costringendone alcune del suo gruppo di ricerca. Non aveva utilizzato meno di duecento ovociti, come dichiarato, ma più di 2.200, da 119 donne, con il 1520% che aveva sviluppato la sindrome da iperstimolazione ovarica. Andando avanti nelle indagini si scoprì l’intera bufala: nessuna delle linee cellulari era stata clo- nata, i risultati erano falsi, la rivista ritirò l’articolo con tante scuse e una vergogna mondiale per la truffa.
L a tecnica fu poi definitivamente soppiantata dal ricercatore giapponese Shinya Yamanaka con le sue iPS – staminali pluripotenti indotte – dette anche ’staminali etiche’ perché la procedura da lui inventata non implicava la creazione di embrioni per ’ringiovanire’ le cellule; gli esperimenti per produrle, inoltre, erano stati condotti su embrioni di topo, mostrando che l’alternativa alla distruzione degli embrioni umani era possibile. Nel 2012 Yamanaka è stato premiato con il Nobel per la Medicina. Il ’padre’ della pecora Dolly, Ian Wilmut, riconobbe poi pubblicamente la validità della nuova tecnica di riprogrammazione cellulare, annunciando di aver abbandonato quella della clonazione che pure lo aveva portato al successo.
A distanza di un quarto di secolo dalla nascita della pecora più famosa del mondo, lo scenario è radicalmente diverso. Di clonazione non si parla più. Ma quel dibattito internazionale, le aspettative e il gran distinguere fra clonazione terapeutica e riproduttiva – compreso il polverone coreano – qualcosa hanno causato: la ricerca che crea, manipola e distrugge gli embrioni umani non fa più notizia. Nessuno è stato chiamato a rendere conto dell’enfasi con cui si prospettavano risultati mirabolanti per curare malattie impossibili, giustificando esperimenti controversi e i relativi, enormi investimenti. E gli entusiasti protagonisti di allora hanno continuato a inseguire l’idea secondo cui ogni ricerca fattibile è possibile, e che solo la scienza può giudicare se stessa. D i recente è stato eliminato il divieto di fare ricerca sugli embrioni dopo il 14° giorno di vita, e non c’è più un limite. Sono stati prodotti embrioni chimera umanimurini. Intanto l’Oms ha da poco reso pubblici due report sul gene editing, tecnica di ingegneria genetica, dai quali non emergono obiezioni al suo utilizzo su gameti ed embrioni formati in vitro, mentre si ribadisce ancora l’irresponsabilità di chi volesse avviare gravidanze con embrioni ’editati’, cioè trattati con questa tecnica. Ma non si esclude che in futuro si possa fare.