Il Messaggero, 26 agosto 2021
Eraldo Affinati ha riscritto i Vangeli. Intervista
«Finora ho pubblicato ventuno libri: penso che Il Vangelo degli angeli li contenga tutti». A parlare è Eraldo Affinati, scrittore che ha scelto di credere nell’educazione, dedicando le proprie energie agli alunni più difficili, immigrati fuggiti da guerre, povertà, dittature. Oggi esce la sua ultima fatica, un libro che interiorizza i testi sacri e li rielabora in forma di romanzo. Il risultato è molto efficace e per nulla apocrifo: assume il sapore di un’autentica esperienza, sia religiosa che narrativa. «È stata questa la mia scoperta più bella – dice – mentre lo scrivevo, vedevo sfilare davanti a me i miei temi di sempre: cosa vuol dire essere liberi? Perché la giustizia umana non ci basta? In quale modo trovare se stessi insieme agli altri? Cosa fare dei nostri istinti? Come possiamo parlare con chi non la pensa come noi?»
Come è nata l’urgenza di riscrivere i Vangeli?
«Ho sentito la necessità di personalizzarli, pur nel rispetto assoluto delle fonti da me scelte: in particolare Luca e Giovanni. Credo ci sia bisogno di un linguaggio inedito, accanto a quello tradizionale».
Perché?
«Nel Nuovo Testamento possiamo trovare parole preziose, utili a tutti, su come intendere e vivere l’amicizia, l’amore, il dolore, le vittorie e le sconfitte: perché lasciare che questi tesori siano appannaggio soltanto dei religiosi?»
Lei è credente?
«Io voglio credere. Spero nella presenza di Dio. È una scelta, consapevolmente rischiosa. Non ho sicurezze. Ma quando incontro altre persone e decido di attribuire valore metafisico a questo sentimento, provo un’emozione».
Si spieghi meglio.
«Ho sempre insegnato italiano ai ragazzi difficili, prima negli istituti professionali romani, poi agli immigrati: quando vedo i loro occhi brillare mi chiedo: ma è tutto qui? Non abbiamo altro? Penso che ogni essere umano arrivi, in modi diversi, a questo bivio. Se ti fai una domanda così, sei già dentro una dimensione spirituale. A prescindere dalla risposta che potrai dare».
Nel suo libro definisce Gesù un combattente. Perché?
«Certo non era un semplice polemista, pronto a passare da una diatriba all’altra come se niente fosse. La sua richiesta era molto più radicale: o tutto o niente. Quando sbagliamo, troppo spesso crediamo di poter non pagare il prezzo del risarcimento. Il Nazareno ci riporta a un senso della responsabilità oggi abbastanza raro».
Qual è il suo giudizio su papa Francesco?
«È di gran lunga il mio papa preferito: sento in lui tutta la forza del cristianesimo. Stare dentro l’istituzione, sì, questo è necessario, ma se non scendi da cavallo per abbracciare il lebbroso, sei ancora a metà strada».
Chi sono gli angeli del titolo?
«Questi angeli nel mio libro, addestrati e formati come commandos, vanno e vengono dalle loro stazioni orbitali, al di là delle categorie di spazio e tempo, per recare messaggi (a Maria, Giuseppe, Zaccaria) ma provvedono anche a proteggere Gesù nei suoi movimenti terrestri, da quando era piccolo al momento della crocefissione e oltre ancora».
Sono dei protettori, quindi?
«Sono anche giornalisti celesti: scrivono reportage sul male umano (pensiamo soltanto al massacro degli innocenti). Nulla di ciò che accade sfugge loro: nemmeno i versi degli animali devono andare perduti».
Quanto è importante Roma, nel suo impegno e nella sua narrazione?
«Sono nato e cresciuto all’Esquilino, il fondale di molti miei libri. Battezzato a Santa Maria Maggiore. Mia madre, pur non essendo praticante, prima di avermi, andò in pellegrinaggio al Divino Amore per chiedere la grazia di un figlio».
Lei ha deciso di volersi impegnare in prima persona, prima nella Città dei Ragazzi, e ora nel suo nuovo progetto umanitario. Ce ne vuole parlare?
«Ho fondato, insieme a mia moglie Anna Luce Lenzi, la scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati. Siamo aconfessionali perché i volontari provengono da esperienze diverse. A Roma operiamo nel quartiere di Casal Bertone, ma esistono una cinquantina di associazioni sparse in tutta Italia che si richiamano al nostro stile: uno a uno, senza classi e senza voti».
C’è un filo rosso che lega i suoi libri?
«Esordii quasi trent’anni fa con Veglia d’armi, una riflessione su Lev Tolstoj, uno dei più grandi scrittori cristiani di tutti i tempi. Campo del sangue, il mio diario di viaggio ad Auschwitz del 1997, annunciava sin dal titolo un’allusione al tradimento di Giuda. Nei testi su Dietrich Bonhoeffer (luterano protagonista della resistenza contro il nazismo, ndr) e don Lorenzo Milani ho attraversato il Vangelo contromano. Altre opere dedicate alla scuola – La città dei ragazzi, Vita di vita, Elogio del ripetente, Tutti i nomi del mondo, Via dalla pazza classe, I meccanismi dell’odio, scritto con Marco Gatto – confermano l’intreccio fra letteratura e pedagogia».
Quali sono le sue radici narrative? Talvolta la sua prosa ricorda quella del Dominque Lapierre de La città della gioia.
«Di Lapierre mi è sempre piaciuto il modo in cui si è sporcato le mani. Ma le mie radici narrative sono altre, infiltrate tra romanzo russo e americano».
A un certo punto nel suo libro la parola divina diventa comprensibile a tutti, superando le barriere linguistiche. È questo il suo obiettivo?
«Dovremmo recuperare il valore universale della parola sacra, ma per farlo non possiamo rinchiuderci nei nostri steccati, culturali, politici, religiosi, altrimenti i giovani non ci seguiranno più».