Corriere della Sera, 26 agosto 2021
I bizzarri sberleffi a Biden
C’è qualcosa di improprio negli sberleffi, nei rilievi a tratti inutilmente offensivi dai quali in questi giorni è sommerso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Da Ferragosto, quando i talebani sono entrati a Kabul, praticamente non è passato un attimo senza che da qualche parte del pianeta un politico (o, più spesso, un improvvisato commentatore di vicende asiatiche) non si sia sentito in diritto di spiegare al capo di Stato americano quali errori aveva commesso. E di indicargli cosa dovrà fare di qui al termine del suo mandato. Quasi sempre biasimi e suggerimenti sono stati accompagnati da sgradevoli considerazioni sulla sua cultura, sulla sua preparazione e perfino sul suo status mentale.
Il trauma provocato dall’improvviso ingresso degli «studenti coranici» nella capitale afghana poteva giustificare all’inizio questa messe di severissime lezioni all’uomo della Casa Bianca. In pochi hanno resistito alla tentazione di spiegare al capo della maggiore potenza mondiale quale posizione dovrebbe assumere nei confronti di Ahmad Massud, in che tempi avrebbe dovuto lasciare la base di Bagram, come riguadagnare un rapporto cordiale con Hamid Karzai. Comunque, era da mettere nel conto qualche reazione stizzita che ricordasse a Biden alcune sue improvvide dichiarazioni. Soprattutto quelle di luglio con le quali il presidente aveva negato che potesse accadere quel che poi è purtroppo accaduto.
Era però evidente già allora che quelle previsioni azzardatamente ottimistiche gli erano state suggerite da capi militari che prima o poi verranno rimossi. In ogni caso era legittimo, ripetiamo, rinfacciargliele. Anche con qualche asprezza.
Ma adesso, in merito agli accadimenti di Kabul, non è giusto far ricadere interamente su di lui qualcosa di più di una responsabilità oggettiva. Nella lunga stagione in cui fu vice di Obama, Biden maneggiò con grandissima cautela il dossier Afghanistan. Fu poi Donald Trump ad impostare, con i negoziati di Doha, le modalità di uscita dal conflitto. Tutto ciò sulla base di un’esplicita trattativa con quello che nei documenti ufficiali viene tuttora definito «Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come Stato ed è noto come i talebani». Quei colloqui andarono avanti a lungo e si conclusero con un accordo, il 29 febbraio del 2020, che prefigurava l’evoluzione odierna. Un anno e mezzo fa. Senza alcuna sostanziale obiezione da parte di quel che siamo soliti definire Occidente.
All’epoca dei negoziati — due anni fa — non c’era atto di Trump (neanche un tweet) che non provocasse polemiche interminabili. Curiosamente, però, nessuno o quasi nell’emisfero a cui apparteniamo ebbe alcunché da ridire sui patteggiamenti Usa di Doha. Neanche sul documento con cui quei patteggiamenti si conclusero, nel quale, in buona sostanza, si annunciava che i poteri sarebbero tornati nelle mani dei talebani. Anzi, tutto avrebbe dovuto realizzarsi in maggio, poche settimane dopo l’insediamento di Biden, ed è toccato all’«Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come Stato ed è noto come i talebani» — così, ripetiamo, viene definito nei documenti di Doha — concedere una dilazione di qualche mese.
Pochissimi (ma qualcuno ci fu) si resero conto di ciò che si stava preparando. Anche in tempi più recenti. Tutti distratti. Marilisa Palumbo ha ricordato ieri su queste pagine che, quando a metà giugno si riunì festante il vertice G7 in Cornovaglia (il primo con Biden), nel comunicato finale il dossier Afghanistan fu collocato ad uno dei penultimi posti, il cinquantasettesimo su settanta. Ora si può tranquillamente affermare che, se in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata. Magari protetta da uomini armati rimasti sul territorio. Invece tutti, anche gli europei, hanno programmato di riportare in patria i militari lasciando sostanzialmente a quel che restava dell’esercito statunitense l’incombenza di proteggere l’esodo degli afghani. Analoghe considerazioni potremmo farle per i diplomatici. Che, come i militari, avrebbero forse dovuto andarsene per ultimi. E invece... Per ciò che riguarda l’Italia, appena gli eredi del mullah Omar sono entrati a Kabul, il nostro ambasciatore Vittorio Sandalli si è imbarcato tra i primi su un aereo destinato a riportarlo in patria (per carità, su esplicito input di Luigi di Maio). Fortunatamente, a testimoniare il contributo italiano all’impresa di salvataggio degli afghani, sono rimasti sul posto i carabinieri del Tuscania, il console Tommaso Claudi (immortalato dalla celeberrima foto in cui aiuta le attiviste di Pangea a mettere in salvo un bambino), il rappresentante Nato Stefano Pontecorvo. Loro e pochi altri come loro.
Dal che si può facilmente comprendere come nessuno abbia i titoli per «ingiungere» al presidente americano di trattenere i soldati statunitensi oltre il 31 agosto sul suolo afghano. E di violare platealmente quel che il suo Paese ha pattuito con l’«Emirato islamico...». L’aver rispettato gli accordi darà agli Stati Uniti più forza per intervenire in modo diverso, anche militarmente, ma in discontinuità con la presenza dei vent’anni trascorsi. Stare ai patti, tener fede alla parola data, offrirà più titoli domani per dar vita ad alleanze che siano in grado di costringere gli uomini del mullah Abdul Ghani Baradar (o di chi per lui) a rispettarli anche loro quei patti. Quanto a Joe Biden, sarebbe ingeneroso mettere per intero sul suo conto ciò che si è verificato in Afghanistan nell’agosto 2021. Aspettiamo prima di dare un giudizio sui mesi iniziali della sua presidenza.