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Il problema della parola con la “N”. Intervista al doppio Pulitzer Colson Whitehead
Colson Whitehead è attualmente lo scrittore di maggior successo in America, e il più versatile. Dopo il suo romanzo sulla schiavitù, La ferrovia sotterranea , ha scritto una commedia-thriller. Una conversazione sulla sua New York, sul “colorismo” e sulla noiosa disputa sulla “parola che comincia con la n” (nigger, ndr). «Ci vediamo fra poco — ma sono le 13.10 su questo fuso orario, giusto?» scrive. Colson Whitehead è in ritardo di dieci minuti. Molto da fare, il fotografo bloccato nel traffico verso Long Island, la grande attesa per il nuovo romanzo, Harlem Shuffle (sta per uscire da Random House), dopo che due sue opere precedenti si sono aggiudicate il premio Pulitzer.
Ancora una volta è un libro completamente diverso. George Saunders ha definito Whitehead lo scrittore americano dalla banda più larga di tutti. Whitehead si è cimentato nel realismo magico (con La ferrovia sotterranea , il suo romanzo storico sulla schiavitù), sa fare satira (Apex), ha sul suo conto un libro di memorie (Sag Harbor), il ritratto lirico di una città (Il colosso di New York) e persino un romanzo di zombie (Zona Uno). Harlem Shuffle potrebbe essere considerata una commedia-thriller.
È la storia di Ray Carney, figlio di un truffatore di Harlem, che tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta aspira a entrare nella classe media nera grazie alla sua attività di venditore di mobili, ma anche facendo di quando in quando il ricettatore. Whitehead appare sullo schermo. È gioviale e ride molto durante la conversazione.
I suoi ultimi due romanzi non solo hanno avuto molto successo, ma erano anche molto tristi.
Harlem Shuffle, invece, è spesso leggero, scanzonato e divertente.
Come mai?
«I ragazzi della Nickel dà voce a un lato della mia personalità e Harlem Shuffle a un altro. A volte preferisco essere serio e affrontare la storia americana e i grandi temi, altre volte è bello divertirsi un po’. Non è diverso con i film che guardo. A volte classici d’autore, a volte The Rock che protegge New York City».
Questa volta scherza addirittura su Juneteenth, il giorno della commemorazione della fine della schiavitù. Un caso di commedia liberatoria dopo aver scritto un romanzo sulla schiavitù e uno su Jim Crow?
«Si può avere rispetto per qualcosa anche scherzandoci sopra. Niente è così sacro da non poterne sorridere».
C’è chi dice che Harlem Shuffle è un romanzo poliziesco. In effetti, ha preso in prestito un genere molto particolare: in inglese si chiama “heist”, rapina, ed è stato reso popolare dal cinema.
«Mi sono sempre piaciuti gli heist movie . Quando ero piccolo, la tv era la mia babysitter e ricordo di aver visto Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet. Poi un bel giorno ho pensato: non sarebbe divertente scrivere un libro heist?
Posso farlo? Mi sono autorizzato da solo».
Si potrebbe dire che il suo primo romanzo, L’intuizionista, fosse un romanzo poliziesco?
«Sì, si potrebbe. Il ritmo, le sorprese, in parte dovute ai libri che ho letto alla fine degli anni Novanta: James Ellroy, Walter Mosley, Elmore Leonard. A quel tempo volevo imparare a costruire intrecci.
Quando si inizia a scrivere, la narrativa poliziesca è una buona scuola. Ma L’intuizionista si avvicina al poliziesco di lato, in modo postmoderno e underground.
Harlem Shuffle prende le cose di petto, senza tanti ammiccamenti ironici e postmoderni».
Ray Carney non è l’unico protagonista del romanzo, c’è un’altra enorme figura sullo sfondo, ed è Harlem. Perché Harlem?
«Quando si scrive un romanzo poliziesco ambientato a New York negli anni Sessanta, deve essere proprio Harlem. Harlem è un mito. È il centro della vita nera negli anni Sessanta. Anche i Black Mobster avevano il loro quartier generale lì, ad esempio i boss come Bumpy Johnson».
Lei non ha mai vissuto ad Harlem, invece I suoi genitori sì.
«I miei genitori vivevano ad Harlem quando andavano al college. Le mie sorelle sono nate lì. Quando sono nato io, vivevamo alla 109esima e a Riverside. È da lì che vengono alcuni dei miei primi ricordi. E Riverside per Carney è un luogo del desiderio.
È lì che vuole andare. Se riesce ad arrivarci, ce l’ha fatta».
Qual è il suo rapporto personale con la città?
«La amo da morire. Gli ultimi cinque mesi sono stati meravigliosi. La città è tornata poco a poco alla vita. Era rimasta in silenzio per un anno. A marzo e aprile ha ricominciato lentamente a fiorire: più gente per le strade, più negozi riaperti. A volte esploro posti in cui non ho mai vissuto. La settimana scorsa ero a Midtown-West, un brutto quartiere tra Times Square e l’Autorità portuale».
Il Colosso inizia con una frase memorabile: «Io sono qui perché qui sono nato e quindi non sono adatto a nessun altro luogo».
«È la verità. Il mio lavoro a volte mi porta in altre città, ma New York è la mia casa e la mia musa ispiratrice. La città mi fa ancora venire i brividi.
Sono newyorchese da una vita. Nel bene e nel male».
Qual è stato il libro più difficile?
«Sono stati tutti difficili, ma forse
L’intuizionista . Ero al verde e depresso, scrivevo “ascensore” dieci volte al giorno e lo trovavo stupido.
Con Harlem Shuffle il problema era più se la trama avrebbe funzionato.
Con La ferrovia sotterranea la questione era come scrivere sulla schiavitù quando ne era già stato scritto così tanto. I problemi sono ogni volta diversi e ogni volta occorre una strategia diversa per affrontarli».
La verità è che L’intuizionista non è stato il suo primo libro. Il suo vero primo romanzo non è mai uscito. L’ha seppellito in un cassetto?
«Non è un bel romanzo, ma ci sono molti libri brutti, e dal momento che si stampano tutti gli altri brutti libri, probabilmente si potrebbe pubblicare anche il mio brutto libro.
Lavorarci sopra fino a renderlo conforme alle mie esigenze richiederebbe però molto tempo, che preferisco investire in altri progetti. Non l’ho più riguardato da vent’anni. Forse i miei figli potrebbero fare qualcosa con il manoscritto, se dovessero trovarsi al verde. Quando sarò morto potranno usarlo per pagare i loro debiti di gioco o qualcosa del genere».
I suoi libri sono estremamente diversi l’uno dall’altro: romanzo storico, satira, romanzo sugli zombie, un libro di memorie... Si annoia presto?
«Non si tratta di noia, ma di averne abbastanza. Un cosa è certa: quando finalmente porto a termine un libro sono stufo».
L’edizione tedesca di Harlem Shuffle arriva con una sorta di disclaimer. Si legge: «Secondo i desideri dell’Autore, è stata riprodotta in modo storicamente fedele la lingua dell’America negli anni Cinquanta e Sessanta».
Ovviamente, si tratta della famigerata parola che comincia con la “n”. Ma nell’edizione americana non c’è una nota del genere.
«L’America ha iniziato a fare i conti con la sua storia razzista negli anni Sessanta. L’Europa sta recuperando terreno e sta vivendo le sue stesse convulsioni, e il mio editore tedesco riceve lettere che si lamentano della parola che comincia con la “n”, e mi dispiace terribilmente. Un editore ha già tante altre cose di cui occuparsi e non dovrebbe ricevere lettere in cui viene rimproverato da qualcuno che non capisce che un romanzo storico deve usare il linguaggio adeguato.
Ogni Paese rielabora a ritmi diversi il proprio passato razzista o coloniale e imperiale. Ma faccio già fatica a confrontarmi con le folli “str...
razziste” dell’America. Non ce la faccio con quelle tedesche o olandesi».
La traduzione tedesca di un libro su Harper Lee ha recentemente omesso la parola che comincia con la “n” nelle fonti storiche citate.
«Sì, l’ho sentito. Sa, io cerco di essere storicamente accurato. Pensi al cacciatore di schiavi Ridgeway della Ferrovia sotterranea. Non dice: “Prenderò quell’afroamericano!”».
A proposito di razzismo: in Harlem Shuffle, i suoceri più facoltosi di Carney lo considerano “troppo scuro” per essere il loro genero. Cosa sta succedendo?
«Lo chiamano colorismo. A volte gli afroamericani con la pelle più chiara hanno pregiudizi nei confronti delle persone con la pelle più scura. È odio di sé interiorizzato, che negli anni Cinquanta e Sessanta assumeva forme diverse rispetto a oggi.
All’epoca esistevano i cosiddetti Paper Bag Club per i neri più ricchi, dove non si poteva accedere se si era più scuri di un sacchetto di carta».
Un club del genere ha un ruolo importante nella seconda parte di Harlem Shuffle.
«Esatto. C’è il razzismo e c’è il classismo ed è qui che si incontrano.
Ad Harlem ci sono operai neri, ricchi neri, gangster neri. Nella storia di Carney, salgo e scendo per la scala socio-economica. Carney è il tipo di mezzo, è tutto questo e niente di tutto questo allo stesso tempo.