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 2021  agosto 25 Mercoledì calendario

Turbanti indiani senza export (colpa dei talebani)

Futuro incerto per i produttori indiani dei tradizionali copricapi
Il ritorno dei talebani a Kabul, oltre a gravi conseguenze umanitarie e politiche, ha ripercussioni economiche e commerciali. Uno dei settori colpiti dall’ascesa dei fondamentalisti islamici è la produzione di turbanti, tradizionali copricapi che dall’India vengono esportati in Afghanistan. Le agenzie di export hanno cessato le spedizioni. E circa 150 mercanti specializzati di Sonamukhi, distretto indiano di tessuti di seta, hanno subìto perdite ingenti. «Gli affari, a causa della crisi economica e dei blocchi, avevano già ricevuto un duro colpo con meno della metà dei produttori di turbanti», ha spiegato il portavoce dell’organizzazione di tessitori di Sonamukhi, Shyamapada Dutta. «La tumultuosa situazione in Afghanistan ha battuto l’ultimo chiodo sulla bara».
La città di Sonamukhi, nella parte occidentale dello Stato, a circa 3 mila chilometri da Kabul, è diventata un centro di produzione di turbanti quando alcuni pashtun, conosciuti localmente come kabuliwallahs, erano soliti visitare l’area per prestare denaro e per vendere spezie e frutta secca. Man mano che il loro rapporto con i tessitori locali cresceva, i pashtun hanno iniziato a ordinare turbanti per portarli a Calcutta. Il business, da 40 anni a questa parte, è diventato fiorente. E i 150 tessitori si sono dedicati al commercio di turbanti, un’attività tramandata per generazioni.
Il turbante indiano è un telo di stoffa arrotolato su stesso. Realizzarlo è un’arte, perché il tessuto di cui si compone è lungo e delicato. I copricapi hanno nomi diversi in base alla lunghezza del materiale utilizzato: il Safa è realizzato con una stoffa lunga 9 metri e larga uno, il Pagri arriva sino a 25 metri, mentre, nelle occasioni più formali, al turbante viene aggiunto un altro pezzo di stoffa che va a formare una specie di cresta chiamata Shamla. Le persone delle caste più basse, quelle che svolgono lavori umili, indossano un turbante chiamato Gamucha, composto da un telo che serve sia come asciugamano sia come copricapo.
Anche in India sono pochi gli uomini che portano turbanti realizzati da loro a partire dalla stoffa. Per questo la maggior parte, soprattutto i giovani, acquistano turbanti già pronti da indossare. Gli stessi che venivano esportati in Afghanistan prima della riconquista del potere da parte dei talebani. Dutta, in rappresentanza dei produttori di Sonamukhi, ha sottolineato che con un copricapo che costa tra le 350 e le 3.500 rupie indiane, dai 4 ai 40 euro, gli artigiani, che producevano dai 20 ai 50 copricapi al mese, stanno subendo perdite considerevoli.
Nimai Pal è un uomo d’affari indiano che era solito prendere il prodotto finale dai tessitori per inviarlo a Nuova Delhi e a Calcutta. Anche lui, come gli artigiani dei turbanti, ha risentito della crisi a Kabul. «Le compravendite erano ferme da un po’ di tempo a causa di fattori come la recessione, il blocco dovuto alla pandemia e la prolungata incertezza in Afghanistan», ha affermato. «Il commercio stava già zoppicando. Anche la visita dei pashtun era diminuita, ma ora le importazioni e le esportazioni sono ferme del tutto. Gli artigiani, così, saranno costretti a tessere altri oggetti».
Un funzionario distrettuale ha detto all’Indian Express che i tessitori e i commercianti presenteranno al governo indiano le loro entrate precedenti e le recenti perdite. Una questione, quella del sostegno economico ai produttori di turbanti, che l’esecutivo guidato dal primo ministro Narendra Modi intende prendere in considerazione.