Per la procura qualcosa di diverso si poteva fare dopo l’arresto in flagranza per l’ennesima molestia, mettendo Sciuto ai domiciliari.
«Non lo avremmo fermato comunque. Ha visto che fine ha fatto? Si è suicidato. Era risoluto. Solo il carcere l’avrebbe fermato. Ma per le norme che abbiamo, dare il carcere a uno stalker è abbastanza difficile».
Nel provvedimento al centro delle polemiche il giudice scriveva che per il rispetto del divieto di avvicinamento si “può fare affidamento sullo spontaneo rispetto delle prescrizioni da parte dell’indagato”. Com’è stato possibile fidarsi di un uomo che Vanessa descriveva come violento?
«Il giudice mi ha detto che c’era stata una riappacificazione fra i due. C’erano dunque elementi contrastanti».
La riappacificazione era stata durante la convivenza, terminata a febbraio. Nella denuncia, Vanessa riferiva piuttosto una frase precisa di Sciuto: «Ti prendo a colpi di pistola».
«Una cosa sono le parole, una cosa i fatti. Non le aveva mai puntato una pistola. Nel 70 per cento delle denunce leggiamo: “Se mi lasci, ti ammazzo”. Purtroppo, siamo di fronte a vicende complesse. Spesso è difficile capire come vanno le cose per davvero».
Proseguendo questo suo ragionamento, non c’è il rischio di scoraggiare le denunce?
«Io dico: fate le denunce quando c’è la sostanza. Perché a volte molti esposti hanno carattere ritorsivo. E, poi, magari si finisce per fare pace».
La denuncia di Vanessa ha molta sostanza.
«Si cerca sempre un colpevole in questi casi drammatici. Ma non può essere il giudice. E non posso contestare niente al collega. Bisognerebbe fare un discorso più ampio. E mettere in campo strumenti adeguati: ad, esempio, un particolare tipo di braccialetto elettronico, che segnala la presenza dell’indagato nel momento in cui si sposta in una determinata zona. Ma, oggi, il braccialetto si può mettere solo agli arrestati domiciliari. Su questo bisognerebbe avviare una riflessione».