Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 25 Mercoledì calendario

In morte di Charlie Watts (batterista dei Rolling Stones)

Andrea Laffranchi, Corriere della Sera
Nulla è eterno. Nemmeno i Rolling Stones. È morto ieri Charlie Watts. Il batterista della più grande rock band del pianeta aveva 80 anni. Il volto affilato ed elegante, il sorriso enigmatico, la postura composta dietro ai tamburi, si diceva fosse uno che non amava feste e festine, vizi e viziacci, il lato meno trasgressivo della linguaccia. Aveva confessato di aver sbandato un po’ negli anni 80 causa confidenza eccessiva con droga e alcol, ma Watts era quello con la passione per i vestiti dei sarti di Savile Row (altro che le paillettes di Mick o il look piratesco-tzigano di Keith), quello che alle groupie preferiva la fedeltà alla moglie Shirley, conosciuta prima del successo e sposata nel 1964, quello meno presente nel gossip e nelle cliniche di rehab. Il compito di dare l’annuncio ufficiale se l’è preso il suo portavoce: «È con infinita tristezza che annunciamo la morte del caro Charlie Watts. Se ne è andato in pace a Londra in un ospedale circondato dalla sua famiglia. Charlie era un marito, papà e nonno adorato e anche un membro dei Rolling Stones, uno dei più grandi batteristi del suo tempo». 
Nel 2004 aveva superato un cancro alla gola, ma le sue condizioni di salute erano peggiorate. Tre settimane fa l’annuncio del tour del grande ritorno live dei Rolling Stones per quest’autunno, era stato accompagnato da quello della sua assenza, causa una non precisata operazione. Charlie aveva commentato con humour inglese: «Per una volta sono andato fuori tempo». 
Watts era nato a Londra nel 1941, aveva subito messo le mani sui dischi jazz che giravano in famiglia e a 14 anni aveva iniziato a suonare la batteria. Negli anni del liceo erano arrivate le prime band e nelle frequentazioni dei locali rhythm and blues di Londra aveva conosciuto Jagger, Richard, Jones e Stewart, il nucleo originario dei Rolling Stones cui si sarebbe unito nel 1963 per dare vita alla rivoluzione che ha travolto non solo la musica ma anche la società. In parallelo ai mega tour con gli Stones, Watts aveva mantenuto la sua passione per il jazz. Nei momenti di stacco dalla grande macchina si dedicava a progetti come l’ultimo ABC&D of Boogie Woogie che lo aveva portato ad esibirsi nel 2011 anche al Blue Note di Milano. E da qui nasceva più che il virtuosismo o la muscolarità la capacità di essere ricercato senza darlo a notare. Per chi avesse individuato in lui l’anello debole dei Rolling Stones, valga l’aneddoto ricordato da Keith Richards nella propria autobiografia. Era il 1984 e la band si trovava ad Amsterdam per una riunione. Nel cuore della notte Mick decide di fare uno scherzo a Charlie e, nonostante Keith lo sconsigli, lo chiama in camera: «Dov’è il mio batterista?». Charlie non risponde. Passano 20 minuti, Keith e Mick sentono bussare alla porta. È Charlie che, vestito di tutto punto – non certo in pigiama —, scansa il chitarrista e piazza un destro in faccia al frontman. «Non chiamarmi mai più il tuo batterista». E se ne va. Ora se ne è andato per sempre, con i suoi abiti dal taglio impeccabile, come il suo pugno e i suoi colpi sulla batteria.

***

Stefano Mannucci, il Fatto Quotidiano
[...] Aveva dato per una vita intera il tempo a quegli sconsiderati con cui divideva il palco. Anzi, li aveva anticipati, proteggendoli dal rischio della catastrofe che incombeva sui Rolling Stones all’attacco di ogni canzone. Una volta Keith Richards ce lo confermò: «Tante sere sono così strafatto che non so quale accidente di pezzo stia per arrivare, anche se quella scaletta l’ho ripetuta mille volte. Se non ci fosse Charlie dietro i tamburi a dare la direzione del concerto saremmo perduti. Io seguo lui, io sono il suo chitarrista» [...]

***

Luca de Gennaro, La Stampa
Il senso di Charlie Watts nei Rolling Stones si riassume in una breve frase che pronunciò molti anni fa, in occasione dell’uscita di una delle tantissime raccolte antologiche di cui è disseminata la discografia della band. In quel caso si celebravano i 25 anni di carriera (di fronte ne avrebbero avuti un’altra trentina). Gli chiesero: «Può riassumere in una frase 25 anni di carriera con la band?» La risposta fu: «Five years of playing, twenty years of waiting». Ho suonato cinque anni, gli altri venti li ho passati ad aspettare. La vita in una rock band è fatta di attese infinite. Attese in camerino prima di salire su un palco, attese in albergo, negli aeroporti, ore infinite negli studi di registrazione in attesa che venga il tuo turno, e poi settimane, mesi e in alcuni casi anni ad aspettare che quei due decidano che vogliono fare. Si va in tournèe? Si fa un altro disco? Hanno litigato e non vogliono più parlarsi? Chi può dirlo. [...]

***

Camillo Langone, Il Foglio
Era così elegante, così imperturbabile, Charlie Watts. Non rotolava affatto il batterista dei Rolling Stones, non si rotolava nel brago del rock’n’roll. E sì che nelle band il batterista è di solito l’energumeno oppure, come nel caso dei Beatles, quello meno dotato. E invece negli Stones il meno dotato era il chitarrista, Keith Richards, e l’energumeno, se un energumeno c’era, di sicuro non era lui. Più del rock amava il jazz e lo si capiva, quel bel jazz raffinato dei Cinquanta-primi Sessanta: lo avrei visto bene nel Dave Brubeck Quartet, come Joe Morello in giacca e cravatta fra piatti e tamburi. Non a caso nei Novanta formò un jazzoso Charlie Watts Quintet, non cambiò la storia della musica (non penso fosse sua ambizione, sembrava il musicista meno ambizioso del mondo e pure questo lo rendeva così distinto) però incise un buon disco. Come tanti di quel mondo e di quel tempo usò l’eroina ma della droga non fece una bandiera come invece Keith Richards, il maledetto dei quattro. Che poi a pensarci bene la diacetilmorfina è sostanza soporifera, la droga giusta per un uomo tranquillo. La cocaina non era la cosa giusta per un signore sposato da sempre con la stessa donna, per un padre di famiglia, per un gentiluomo inglese che non aveva bisogno di cambiarsi d’abito (non era stropicciato nemmeno sul palco, ricordo polo impeccabili) per cominciare a leggere Roger Scruton. Appena ho saputo della sua morte mi sono messo ad ascoltare in sequenza i miei pezzi prediletti, “I can’t get no satisfaction” (1965), “Simpathy for the devil” (1968), “Gimme shelter” (1969), “Wild horses” (1971), “Shine a light” (1972), “Time waits for no one” (1974), fino al tardo “Rain fall down” (2005)... A parte “Simpathy” non è che si notasse molto, Charlie Watts. Non era un musicista invadente. Era un batterista bravo, non stratosferico, pertanto una colonna solida e leale per una band con una primadonna e mezzo. Aveva ottant’anni, spero non abbia sofferto, spero che alla fine si siano ricordati di dargli quella “Sister Morphine” che con le sue bacchette aveva onorato tante volte: “Per favore, sorella Morfina, trasforma i miei incubi in sogni” (le parole non erano sue, non aveva nemmeno velleità poetiche, che uomo perfetto).

***

Gino Castaldo, la Repubblica
Addio caro, elegante, riservato batterista della band più scatenata del mondo, il signore compassato che sembrava già maturo per non dire anziano quando gli altri ancora sgambettavano come giovani monelli, che sembrava capitato quasi per caso in quella gabbia di matti, lui che ha generato una brillante contraddizione in un mondo di batteristi rock in genere considerati dei duri “picchiatori”, come li definiva Keith Richards, lui che veniva dal blues e dal jazz e ha mantenuto questa fede fino alla fine, lui che insieme al bassista Bill Wyman, finché è rimasto, manteneva l’aplomb della compostezza mentre Jagger, Richards e Ron Wood si scatenavano demoniaci, cattivi ragazzi per vocazione e maschera artistica.
Charlie Watts aveva da poco compiuto 80 anni, e aveva già annunciato che non avrebbe partecipato al prossimo tour del gruppo a causa, ha detto con somma ironia, di una erronea scelta di tempo per un intervento chirurgico, non stava bene, aveva bisogno di riposo, poi ieri la morte, “pacifica” secondo il comunicato ufficiale. Con la sua scomparsa si infrange quell’aura di highlander che circonda da sempre la band, sopravvissuta a decenni di stravizi e stravaganze, lui che c’era fin dall’inizio, dal 1963, nel nucleo originario con Wyman, Jagger, Richards e Brian Jones. Quest’ultimo l’unico dei fondatori che era già scomparso, atrocemente presto, nel 1969, quando il mondo stava appena imparando a celebrare la bellezza furiosa e irriverente di quella nuova gioventù, proprio quando gli altri Stones, o meglio i due veri boss, i glimmer twins Jagger/Richards, il loro ex amico Brian, come si è scoperto in seguito, l’avevano già fatto fuori, lasciando una sgradevole ombra su tutta la storia successiva. Watts dava sempre l’impressione di essere del tutto indifferente a quanto avveniva sul palco, faceva il suo dovere, benissimo, teneva il tempo, che non è poco, e lo faceva alla sua maniera, senza mai picchiare, per l’appunto, piuttosto mantenendo un suo lievissimo ritardo, alla maniera jazz, il che secondo molti analisti è in fin dei conti l’ingrediente segreto del sound degli Stones, quello che unito al battito più regolare del basso di Bill Wyman e alla chitarra ruggente di Richards determinava l’inconfondibile lieve slittamento sul tempo che ha fissato tanti pezzi del repertorio Stones. Una batteria che irrompeva quando era il momento di Let’s spend the night together, era il sostegno indispensabile alla voce di Mick quando doveva cantare l’insoddisfazione di Satisfaction, era la rullata sfacciata e senza appello di Get off of my cloud, era la cupezza dei tamburi che fissavano di nero la porta di Paint it, black, era quel sottile movimento tellurico di Brown sugar , la chiamata alle armi di Miss you e Start me up. Lui c’era, c’è sempre stato, ma alla sua maniera, tutti lo sapevano, lo rispettavano per quello che era, col suo distacco, e nel suo tempo libero continuava a coltivare la sua passione per il jazz, incideva dischi, faceva tour per conto suo, ma alla bisogna serrava le fila coi vecchi compagni di strada creando quell’effetto di straniamento che era il marchio inconfondibile dei concerti Rolling Stones, come se ci fossero due piani scenici paralleli, un fronte avanzato con l’incontenibile Jagger e i due fiancheggiatori alla chitarra, Richards e Wood, e un secondo piano più arretrato e freddo, con basso e batteria più controllati, almeno nelle movenze, come se fossero gli operai della macchina, quelli che reggevano tutta la baracca, ma non sentivano alcun bisogno di mettersi in mostra, lasciando la scena ai più vanitosi ed esibizonisti compagni di band.
Questo era Charlie Watts, un batterista distinto ed elegante, per nulla vanaglorioso, anzi discreto, raffinato, capace di lasciare un segno fondamentale nel rock senza mai esagerare, senza un colpo di troppo, e lo ha fatto militando nella band che ha creato lo slogan più malizioso di sempre: sesso, droga e rock’n’roll. Forse lui avrebbe preferito qualcosa di più sobrio, guardava i suoi amici fare pazzie e sberleffi senza battere ciglio. Lui aveva una missione serissima da perseguire: doveva tenere il tempo, e il tempo nella vita è tutto.