Linkiesta, 24 agosto 2021
L’esigenza inesauribile di scrivere i cazzi propri sui giornali
Quando ho cominciato a scrivere i cazzi miei sui quotidiani, vent’anni fa, l’economia del sé non era ancora cominciata. Tre anni prima nei cinema Jeff Bridges, in visita alle stanze del signor Lebowski, si rifletteva in uno specchio incorniciato con sopra pittata la grafica della testata di Time e del logo «person of the year». Un personaggio di fantasia aveva comprato uno specchio che gli dicesse che, secondo Time, la persona dell’anno era lui. Sembrava un’iperbole comica, era una profezia tragica.
Otto anni dopo, il vero Time avrebbe davvero pubblicato il numero «person of the year» con uno specchio in copertina, ci avrebbe davvero detto che la persona dell’anno eravamo noi. E poi Facebook, e poi Instagram, e poi la corsa dei giornali a dirci, con decenni di ritardo sulle pubblicità dello shampoo, che eravamo protagonisti del nostro tempo e della performance.
Quando ho cominciato a scrivere i cazzi miei sui quotidiani, quelli che facevano i quotidiani erano stravolti. Un po’ meno di vent’anni fa, su un Roma-Milano, in attesa che s’aprissero le porte per scendere, una persona che avevo fin lì visto solo in televisione mi disse: Tu hai cambiato il modo di scrivere in Italia.
Non era vero, naturalmente.
È che quelli che fanno i quotidiani leggono solo i quotidiani, e quindi non sapevano che quella cosa lì – raccontare i cazzi propri – sulle riviste femminili si faceva da sempre. Per dire: io la facevo perché l’avevo vista fare nel posto dal quale avevo imparato l’inglese, i numeri di Cosmopolitan edizione americana che compravo altri vent’anni prima, quand’ero alle medie.
Se sembra preistoria è perché lo è: negli ultimi anni tutti raccontano i cazzi propri su qualunque giornale, in qualunque cosiddetto romanzo, persino nei film. Chi vuole darsi un tono dice che lo fa da scrittore, che quello non è autobiografismo ma io narrante, che «io» scritto per mestiere mica significa davvero «io». (Sono tra coloro che vogliono darsi un tono, naturalmente; sono anche tra coloro che pensano che una verità messa per iscritto non è più una verità: non lo era neanche quando la scrivevamo nel diario col lucchetto, lucchetto che mettevamo in conto qualcuno avrebbe scassinato).
Certo che, come diceva quell’infelice, «io è un altro»; ma certo che quando scrivi parli di te, anche se fai arzigogoli sintattici per non dire mai «io».
La settimana scorsa uno scrittore ha pubblicato un racconto su un quotidiano. L’io narrante del racconto (coetaneo dell’autore, omosessuale come l’autore, coi proventi d’un romanzo da spendere come l’autore: non esattamente Emma Bovary, diciamo) parlava della propria ossessione per la magrezza.
I giornali italiani pubblicano assai raramente narrativa, e quell’autore ha spesso preso pubblicamente posizioni suscettibili. Quindi, quando su Instagram il suo pubblico gli si è rivoltato contro al grido di «io vomito la cena e tu non ti devi permettere di scrivere di disturbi alimentari senz’avvisarmi che potrei restarne turbata» (sintesi mia), non ha scelto di dire che se ti turba leggere la vita d’un altro forse dovresti chiuderti nella capanna di Unabomber; ha scelto la linea «ma quella era letteratura, mica un editoriale».
Come linea difensiva non funziona, ovviamente; perché, se accettiamo l’idea ch’io debba essere tutelata dalla possibilità che qualcosa mi turbi, quell’idea vale per tutto: romanzi, racconti, editoriali, cronache, persino i film con l’avviso «nessun cane è stato maltrattato». Se devo essere avvisata, devo essere avvisata sempre. Il punto è che quella ch’io debba essere tutelata è un’idea imbecille.
E fa sorridere che a confrontarcisi debba essere proprio quello scrittore che, sullo stesso giornale, aveva contestato il libro di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli) difendendo la letteratura engagé in quanto, anche se malscritta, benintenzionata: «Esiste anche la cattiva letteratura senza impegno, le brutte pagine che non possono vantare – in ragione della propria esistenza – nemmeno la vocazione politica».
Improvvisamente, di fronte alle reazioni scomposte per una paginetta di modello negativo, lo stesso autore rinnega il proprio «oggi è forse il bene a essere più ricco di possibilità immaginative, in quanto meno inflazionato […] Il male accende, eccita gli animi, e la cronaca nera ce lo insegna. Quanto sarebbe rivoluzionario un romanzo che riuscisse a parlare in modo nuovo e affascinante, poniamo, della gioia o dell’interesse non strumentale per l’altro?».
Sospetto che sarebbe una discreta rottura di coglioni, caro amico, un po’ come una versione di Raskolnikov che aiutasse la vecchietta ad attraversare la strada; ma magari mi sbaglio, e magari si sbaglia anche lei, quando controbietta alle sue lettrici offese che «la scrittura narrativa può e deve» andare a esplorare l’ambiguità e il male. (Certo, che il male di cui stiamo discettando sia stare a dieta non dà esattamente un’idea grandiosa degli orizzonti letterari d’oggidì, ma che dobbiamo fare: Dostoevskij è morto, Cosmopolitan è in gran salute).
Il fatto è che i giornali, quindici anni dopo quella tragica copertina di Time, sono così pieni delle vite di chi li scrive e di chi li legge – i tweet dei lettori, i commenti dei lettori, i selfie dei lettori: non pervenuta la risposta alla domanda «perché dovrebbero comprare i giornali per rimirare quegli stessi cazzi loro che postano sui loro Instagram e giocattoli affini?» – che nascondersi dietro la distinzione «scrittura narrativa» fa ridere.
Ieri sul Corriere c’era un brano di Emanuele Trevi – scrittore, premio Strega, e collaboratore da molti anni di quel quotidiano. È mia convinzione che, tra i dettagli che hanno contribuito al disastro, ci siano le note biografiche. A un certo punto i giornali hanno deciso che ai lettori non potesse bastare il fatto che il tizio che firmava fosse quello che aveva scritto la cosa che stavano leggendo. Sicuramente i lettori – privi di Google, e smaniosi di sapere se quel tal Flaubert fosse una massaia di provincia – volevano che il giornale dicesse loro di più sull’autore.
Ho scritto, da affiancare a miei contributi su innumerevoli giornali, bio spiritose che sono le cose di cui mi vergogno di più tra quelle da me composte. Che poi, se sei uno scienziato che scrive cose ostiche per il lettore medio, capisco pure che una testata cerchi di renderti per il lettore una figura meno fredda facendoti annotare di che segno sei e che ti piace la parmigiana di melanzane. Ma se come me scrivi solo dei cazzi tuoi, ecco, come dire: non serve.
Emanuele Trevi ieri raccontava del suo cane, del suo amico (l’attore Libero De Rienzo) che gliel’aveva regalato, del libro che ci aveva scritto. Era forse la pagina più avvicinabile del giornale, c’era tutto per il lettore medio: i cani, l’amicizia, il lutto, il (Trevi mi perdoni) sentimentalismo.
Ma non bastava. Non basta mai. Il giornale ha deciso d’impaginare il tutto con cinque note biografiche. La quinta ci diceva con chi era sposato dieci anni fa Trevi.
Quando ho cominciato a scrivere i cazzi miei sui giornali, la differenza era soprattutto la mancanza di questa sindrome senza nome: questa sindrome in cui i cazzi nostri sono al tempo stesso troppi, e non bastano mai.