La Stampa, 24 agosto 2021
L’amicizia tra Gabriele Lavia e Umberto Orsini
Uno che sa cucinare e l’altro che non sa mangiare, manicaretti contro pastina in brodo con formaggino sciolto, sturm und drang vs. compostezza assoluta. Eppure, o forse proprio per queste discrepanze, Gabriele Lavia e Umberto Orsini sono amici, infinitamente amici. I ricordi comuni composti di fatti e avvenimenti vengono raccontati in modo identico. Qualcosa cambia quando entra in gioco lo stato d’animo e il carattere, gli effetti della loro amicizia che assorbono e dunque riflettono le differenti sensibilità.
C’era Gabriele Lavia a dirigere Cechov, Il Gabbiano con Ottavia Piccolo e c’era Umberto Orsini in platea. «Eravamo a Modena – racconta Orsini che a detta di Lavia ha una memoria più presente -. La mia amicizia è nata per ammirazione. Tutto mi colpì del suo spettacolo, l’uso delle luci, la recitazione. Così quando mi affidarono la direzione artistica del Teatro Eliseo a Roma, lo chiamai. Lo volevo al mio fianco per affinità artistica. Lui sapeva dirigermi, mi conteneva. Da quelle frequentazioni nacque l’amicizia umana. Eravamo tutti e due in crisi sentimentale, lui matrimoniale, all’orizzonte s’intravvedeva il futuro legame con Monica Guerritore. Anche io non me la passavo bene. Una condizione comune, dovuta alle pene amorose, che ci portava ad affratellarci. Contemporaneamente eravamo in scena I Masnadieri di Schiller che ebbe un successo enorme contribuendo a lanciare noi e il Teatro Eliseo».
I guai d’amore
Pene amorose che videro Orsini ospitare Lavia nella sua casa di campagna, a Zagarolo, vicino Roma. «Gabriele odia gli insetti, una sorta di paranoia e io, prima, a controllare la sua camera per scovare eventuali ospiti sgraditi che in campagna sono pressoché inevitabili. Oltretutto lui mangia malissimo, l’unico italiano a detestare gli spaghetti. Basta vedere che cosa ordina al ristorante per capire quanto male mangi. Per un periodo abbiamo abitato vicini a Monteverde Vecchio, a Roma e ci incontravamo al mercato, lui sceglieva male persino gli ingredienti del minestrone. Un catanese che neppure si avvicina al banco del pesce per quanto lo detesta. Io invece cucino bene, sono figlio di cuochi, mio padre aveva un ristorante e mia madre cucinava sempre. Per questo feci in tv un programma sul cibo, fui un precursore del genere, sono il responsabile delle varie Clerici e via seguendo. Dieci puntate la domenica. Poi smisi di colpo quando mi resi conto che la gente per strada mi chiedeva le ricette e non più del teatro. A tutto c’è un limite».
Ricorda Lavia: «Umberto, visto quel Cechov mi chiamò e io firmai la regia del suo Servo di scena di Ronald Harwood. Andai a Londra per vedere lo spettacolo e con Umberto ottenemmo un grande successo. L’amicizia si stabilì immediatamente. Io ho tre fratelli, il quarto é Umberto. Anche se gli impegni contemporanei ci impediscono di vederci quanto vorremmo, quando siamo insieme é come se fosse passato un attimo dall’incontro precedente. Un’amicizia che trascende l’esistente. Lui cucina benissimo, un vero talento. In giardino ha due busti, risultato di un premio che ci fu attribuito. Nessuno dei due ci somiglia. Chiedendo lumi allo scultore che li ha forgiati, ci venne risposto che non aveva scolpito i nostri volti ma le nostre anime. Il risultato è che le due sagome sono identiche. C’è una metafisica nel cervello mi viene da pensare ogni volta che le osservo».
Pregi e difetti
Non c’è bisogno di chiedere a Lavia quale sia il pregio più pregio di Orsini, lui anticipa la domanda con entusiasmo: «È la persona più generosa che io abbia mai conosciuto. E lo dico perché ho avuto modo di sperimentarlo. Io sono famoso per fare il passo più lungo della gamba. Faccio spettacoli non grandi ma certamente grossi sì, scene faraoniche, tanti attori e allora i conti cominciano a ballare. Io, a differenza di Umberto che ha anche questo talento, non sono un grande amministratore e neppure un grande organizzatore. E quando sono stato in difficoltà lui mi ha aiutato senza che glielo chiedessi, senza battere ciglio. Non lo dimenticherò mai. Abbiamo stili di vita diversi, io ho avuto molti figli e lui no e forse è il suo piccolo-grande cruccio, una nostalgia tra l’amarostico e l’amaro. Ma quanti problemi in meno! Infatti, pur essendo più grande di me, gli anni se li porta molto meglio. Umbertone, come lo chiamano i vecchi amici di palcoscenico, retaggio di un vecchio elettricista che lo chiamava “Umbertò”, è così, speciale».
Tanto speciale da volerlo padrino della sua prima figlia, Maria, avuta con Monica Guerritore. «La nostra crescita artistica – prosegue Orsini – ha alimentato il nostro rapporto personale forgiando questa amicizia di consuetudine. Lui mi ha tolto i pudori che avevo nel recitare, ero sempre stato un interprete più alla tedesca. Lavia mi ha dato spudoratezza, anche nei confronti del pubblico. Erano gli Anni 80 e poi i 90, io rischiavo di più scegliendo testi nuovi, Gabriele è sempre stato più pragmatico. Ma lui é un regista e io solo un attore, dunque ho meno responsabilità. Ha la testa più vivace che io abbia mai conosciuto, anche se un po’ pedante. Una caratteristica che a me piace. Io mi interesso a lui più di quanto lui si interessi a me. Gabriele non ha bisogno di me. Artisticamente parlando mi fa piacere di averlo sempre chiamato io a lavorare con me, mai il contrario. Sento di avergli dato e io ho ricevuto la sua amicizia e il suo aiuto che gli ho restituito in termini di resa. Mi ha diretto sempre con molto amore e vedo nei suoi occhi la certezza che lui quel ruolo lo avrebbe interpretato meglio di me. È normale, il regista deve saperne di più. Lui ha grandi mezzi vocali, io sono più secco. Chissà se lui pensa di me la stessa cosa. L’amicizia affinché duri nel tempo deve contenere una dose di inimicizia. Detto questo, abbiamo fatto un patto tanti anni fa, un po’ per ridere e un po’ seriamente. Se un giorno io diventassi invalido ma potessi recitare, lui deve trovare un testo che mi renda possibile andare in scena. Insieme ci aiuteremmo nello stesso modo. Sapere che hai un amico e che ci si vuole bene aiuta, anche nella diversità. La dialettica è essenziale. Altrimenti mi confronterei con me stesso e già lo faccio ogni giorno».