La Stampa, 24 agosto 2021
L’uomo che spiava i talebani
Il capo taleban, diciamo un sergente, si rivolge al sottoposto: «Vai a mettere la bomba là sotto, dietro la curva. Non la vedranno». Il soldatino obietta: «Può aspettare fino a domattina». Il capo insiste: «No, non può. Gli americani potrebbero arrivare prima, e noi abbiamo bisogno che l’esplosivo sia giù per ammazzarne il massimo possibile». Il sottoposto punta ancora i piedi: «Credo che aspetterò». Il superiore si irrita: «No, non aspetterai! Vai giù e piazza la bomba». Il soldatino, che nella mente di un lettore italiano avrà assunto la fisionomia di Alberto Sordi nella “Grande Guerra”, capisce che si mette male: «Devo proprio andare?». Il sergente perde la pazienza: «Sì! Vai e fallo!». Il sottoposto tenta un’ultima insubordinazione: «Non voglio». Il superiore allora fa il comprensivo: «Fratello, perché no? Noi dobbiamo combattere la jihad!». Il soldatino allarga le braccia: «Fratello... è troppo freddo per fare la jihad».
Non è il canovaccio di una commedia di serie B sulla guerra in Afghanistan, ma una vera conversazione avvenuta fra due taleban sulle montagne gelate del loro paese, ascoltata e registrata da Ian Fritz. Ian ha servito dal 2008 al 2013 nell’Air Force, per fornire alle truppe americane i “threat warning”. Sorvolava i teatri di guerra su aerei speciali, attrezzati per intercettare le comunicazioni radio dei taleban. Era uno di circa venti soldati addestrati a comprendere il Dari e il Pashto, principali lingue locali, e perciò era stato assegnato all’Air Force Special Operations Command. Ascoltava il nemico, sentiva cosa preparava, e poi informava i superiori sul suo stesso aereo, attrezzato per bombardare subito chi poneva pericoli. «Ho volato su 99 missioni di combattimento – ha scritto Fritz sulla rivista Atlantic – per un totale di 600 ore. Forse 20 di queste missioni e 50 di queste ore hanno riguardato vere battaglie. Altre 100 ore hanno prodotto informazioni di intelligence utilizzabili a fini pratici. Il resto erano chiacchiere. Ma queste cose fluivano naturalmente dal grande talento verbale dei taleban, il discorso motivante. Nessun incontro fra commessi viaggiatori, set cinematografico o spogliatoio sportivo ha mai visto il livello di preparazione iper entusiastica che i taleban dimostravano prima, durante e dopo ogni battaglia. Forse dipendeva dal fatto che erano ben addestrati, e avevano fatto la guerra tutta la vita. Forse credevano genuinamente alla santità della loro missione. Ma più li ascoltavo, e più capivo che questa perpetua sbruffonaggine era qualcosa che dovevano fare per continuare a combattere. Altrimenti come avrebbero potuto lottare con un nemico che non esitava ad usare bombe disegnate per distruggere un edificio allo scopo di uccidere anche un solo uomo?».
Per spiegarsi, Fritz racconta un episodio avvenuto il giorno prima del suo ventiduesimo compleanno. I bombardieri americani avevano appena scaricato un ordigno da oltre 220 chili di esplosivo su un campo di battaglia, «polverizzando 20 uomini. Io – ha ricordato su Atlantic – pensai che ne avessimo ammazzati abbastanza. Ma non era così. Quando altri due elicotteri d’attacco erano arrivati, li avevo sentiti urlare: “Continua a sparare. Si ritireranno!”. Mentre noi attaccavamo, loro ripetevano: “Fratelli, stiamo vincendo. Questo è un giorno glorioso”. Non importava che stessero combattendo con fucili vecchi di trent’anni contro elicotteri e caccia. Non contava che cento di loro fossero morti. I taleban conservavano i loro spiriti alti, si incoraggiavano, insistevano che stavano vincendo».
Nella primavera del 2011, Fritz aveva accompagnato le Special Forces in un villaggio dove avevano subito un agguato. Gli afghani parlavano come contadini che seminano, gli americani erano certi che nascondessero armi. L’aereo di Ian aveva sparato, un uomo aveva perso una gamba, e tutti gli altri lo avevano soccorso fino a quando era morto, invece di difendersi. «La mia sensazione era che stessimo sempre conducendo le stesse missioni, negli stessi posti, ri-liberando i villaggi già liberati tre anni prima». Una volta aveva accompagnato una squadra in un paesino a parlare con gli anziani per scavare un pozzo. Era andato tutto bene, ma al momento della partenza, i taleban avevano attaccato: «Fratello, ne hai beccato uno. Vai avanti, continua a sparare. Possiamo prenderne altri!». La conversazione si era interrotta li, perché l’aereo di Ian aveva bombardato i taleban che sentiva parlare.
La storia di Fritz insegna due cose. Primo, queste missioni di intelligence ora nessuno le condurrà più, facilitando la vita ai terroristi. Secondo, il destino della guerra era segnato, anche se le missioni fossero continuate: «Quando tornavano a casa, i taleban andavano nel villaggio vicino, non come noi a 6.000 miglia di distanza. Forse erano veri contadini, forse no. In ogni caso, le nostre bombe significavano che sempre più giovani del loro paese si sarebbero uniti ai taleban. In quelle conversazioni che ascoltavo, mi dicevano una cosa che molti altri si rifiutavano di sentire: l’Afghanistan è nostro».