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 2021  agosto 24 Martedì calendario

Luca Campedelli parla della brutta fine del Chievo

È proprietario di una squadra senza calciatori e senza campionato. Luca Campedelli, un tempo il presidente più giovane della Serie A, a 52 anni si guarda i palmi delle mani. «Ecco cosa mi resta. È una storia kafkiana, senza senso, che porta dolore».

Cos’è successo al Chievo Verona?
«La Figc ha deciso che non potevamo iscriverci né in Serie B, dove eravamo, né nei dilettanti. La ragione: alcuni arretrati nei versamenti Iva. Abbiamo chiesto per tempo di pagare a rate. L’ufficio riscossione delle Entrate ha riconosciuto il nostro diritto a frazionare i versamenti, ma a causa delle norme legate al Covid non ha potuto predisporre le necessarie pratiche. La prima rata l’abbiamo pagata il 28 giugno, 800mila euro dei 18 milioni che devo allo Stato. Ma non è bastato».
Che carte le restano da giocare?
«Il Tar ha dato ragione alla Figc. Giovedì ci presenteremo al Consiglio di Stato, che ha accettato di anticipare l’udienza. Chiediamo l’iscrizione alla Serie B in soprannumero. Abbiamo fatto tutto secondo le regole. Il calcio vive sui debiti e i pagherò. Però alla fine paghiamo solo noi».
Il Chievo ha debiti per 44,2 milioni a fronte di crediti per 14,4 oltre al patrimonio dei calciatori. Il bilancio al 30 giugno 2020 lo avete chiuso con 32mila euro di attivo.
«In Europa siamo fra i club messi meglio. Il Barcellona ha un miliardo di debiti. L’Inter ha vinto il campionato pagando in ritardo gli stipendi. Io i giocatori li ho pagati fino a maggio, poi a giugno è scoppiata la bufera».
Hanno cancellato i contratti?
«La Figc ha consentito ai calciatori di liberarsi gratis e lo hanno fatto tutti, Primavera compresa. La gratitudine non è di questo mondo. I procuratori si sono arricchiti. I club rivali anche. Nel calcio devi dare senza pretendere niente. Siamo stati i primi ad allenare i ragazzini disabili, a portarli in ritiro. Ma nel pallone il bene non torna».
Ha ricevuto solidarietà?
«Fra i presidenti mi ha chiamato solo Enrico Preziosi. Poi qualche ex giocatore. E Delneri, l’allenatore della promozione in Serie A nel 2001 e della vittoria a San Siro contro l’Inter, nel giorno dell’addio a Peppino Prisco. La gioia in un giorno di dolore».
Con Pellissier, capitano e bandiera del club, vi sentite?
«Non più. Nella vita è complicato trovare le persone ma è un attimo perderle. Leggo che ha intenzione di rilevare il club, a capo di una cordata. Sono pronto a parlarne, per i tifosi e per i 50 dipendenti, l’anima del club. Sto pensando come pagare loro gli stipendi. Se tradisci chi lavora per te è finita davvero».
Si è fatto avanti qualcuno per rilevare il club?
«Si è fantasticato di fantomatici acquirenti italiani, svizzeri, statunitensi. Un fondo ha dichiarato interesse ma niente più. Per il resto, solo perdite di tempo».
Il Comune di Verona ha cercato compratori.
«Il bando è scaduto. È andato deserto. Avrei voluto partecipare ma serviva una deroga del sindaco. L’ho chiamato, non mi ha risposto. Questo è il rispetto di 92 anni di storia. Il Chievo non lo merita. Le maglie di questa stagione sono meravigliose. Le ho disegnate io con l’aiuto dell’artista Thomas Donati. Sono lì pronte negli scatoloni».
E chi le potrebbe indossare, se i giocatori sono scappati?
«Se il Consiglio di Stato ci darà ragione, sono pronto a perdonarli. Non sono Gesù Cristo, ma per me il Chievo, con l’azienda di famiglia, è la vita. Mio padre diceva di non togliere soldi alla Paluani per darli al club e non l’ho mai fatto. Ora l’immagine dell’azienda potrebbe soffrire delle vicende del club, insieme alla mia reputazione».
Con chi è più arrabbiato?
«Con la Figc che ci ha trattato con disparità rispetto a casi simili. Abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti per sapere se altri fossero nella nostra situazione, ma ci è stato negato. Tutto il calcio mi ha deluso. Non riesco più a guardare una partita».
Se dovesse perdere al Consiglio di Stato, chiuderà col pallone?
«Da ragazzo avevo il mito del club inglese Preston North End, che a fine ‘800 stabilì il record di imbattibilità, ma non ho soldi per prenderlo e il mio inglese non è abbastanza buono.
Certi sogni è meglio lasciarli tali. A trent’anni sognavo una Lamborghini. Ci salii, era scomodissima. Anche il calcio lo è. Quando ho cominciato conoscevo solo un avvocato, padre di un amico. Sono finito per pagare più avvocati che giocatori. Siamo sotto indagine anche per una questione di presunte plusvalenze fittizie. Anche lì dimostreremo la nostra ragione».
Il suo più grande rimpianto?
«Non essere riuscito a comprare Drogba e Cavani. E avere perso Lasagna, fidandomi dei miei dirigenti del settore giovanile. Mi sono fidato anche della Lazio e mi portò via Manfredini ed Eriberto, che cambiò nome in Luciano per andar via. Poi c’è quel maledetto pallone».
Quale?
«Contro la Juve a Torino nel 2011. Pellissier aveva scartato tutti, Uribe lo sprecò davanti alla porta. Ho ancora tutto negli occhi. I calciatori non sanno aspettare»
Lei ha figli?
«Ho due nipoti. Il più piccolo avrei voluto introdurlo nel club. Spero di poterlo fare perché l’ingiustizia che stiamo subendo è troppo grande».