Ha ben presente, e lo ripete nella sua ampia bibliografia, che le risorse naturali non sono illimitate e che bisogna riformulare il nostro rapporto con il Pianeta. Lo sostiene fin dagli anni Sessanta, quando lavorava in California con gli amici di Los Angeles James Turrell e Bob Irwin, prima di aprire il suo studio a New York nel 1976.
L’abbiamo raggiunto via web a Rhinebeck, nella Hudson Valley, appena fuori New York, dove Holl, 73 anni, devoto alla luce, allo spazio e alla natura, scrive, disegna, dipinge magnifici acquarelli, ospita artisti e architetti e, soprattutto, progetta dividendo il suo tempo fra qui e lo studio a Manhattan. Per lui l’aspetto più importante dell’architettura è la dimensione umana.
Cos’è per lei la dimensione umana?
«A New York ho casa all’ottavo piano di un vecchio edificio, se apro la finestra e guardo fuori posso riconoscere una persona. Ecco, la scala umana è la distanza da cui puoi ancora riconoscere un volto, poter aprire una finestra e lasciare entrare l’aria. Sembra un gesto scontato ma in molte torri non è possibile. Ho sempre pensato, ben prima della pandemia, che ogni persona debba avere accesso a spazio, luce, aria, sia nelle abitazioni che negli spazi pubblici».
Come si realizza la dimensione umana nelle metropoli?
«Si può e si deve costruire in maniera diversa da come stiamo facendo. I grandi insediamenti devono essere circondati da aria, acqua, giardini pensili, terrazze pubbliche, con l’obiettivo di creare contesti vivibili. A Pechino, ad esempio, ho costruito otto torri, Linked Hybrid, un insediamento gigantesco, una città nella città, alimentate dall’energia della terra attraverso potenti impianti geotermici, finestre che si aprono, acqua dal sottosuolo, verde. È un progetto sostenibile, era il 2009, e funziona ancora bene, e secondo parametri ecologici irrinunciabili. Questo progetto utilizza strategie molto sofisticate, integrate con elementi naturali, e basate su sistemi chiusi. In poche parole, abbiamo mirato a diminuire l’impronta di carbonio degli edifici e a minimizzare la dipendenza da infrastrutture fonti di energia esterne. Non siamo ancora in grado di raggiungere emissioni zero con edifici di queste dimensioni, ma possiamo arrivarci».
Come? Con edifici che producono energia?
«Tecnologia e natura possono e devono essere una sintesi potente per produrre energia a basso impatto ambientale. Non ho mai creduto che la specie umana avesse il diritto di dominare l’ambiente, tanto meno di depredare il pianeta da risorse che, peraltro, non sono illimitate. Al contrario, il nostro lavoro si basa sull’integrazione fra dimensione umana e naturale, il che ci pone come specie in sintonia con l’ambiente non al di fuori né al di sopra di esso».
Come ha fatto per il Winter Visual Art, appena inaugurato a Lancaster in California?
«In quel caso ho costruito l’intero progetto intorno alle querce secolari del luogo, progettando pareti concave che si curvano per accoglierne le chiome e orientando gli edifici per sfruttare l’ombra, le correnti e i profumi degli alberi».
Anche il suo ultimo edificio, Nancy and Rich Kinder Museum of Fine Arts a Houston, Texas, dialoga con il contesto…
«In quel caso il tema è la luce: gli edifici si scambiano la luce, sono lanterne che l’accolgono di giorno per restituirla la sera e illuminare il luogo tutto intorno».
È l’architettura che si adatta al contesto e non viceversa…
«Dobbiamo considerare il Pianeta come casa nostra e proteggerlo, ristabilire connessioni con la terra, il clima, la materia, lo spazio fisico e la luce. È questa la base di un’architettura sostenibile, l’unica possibile, anche se a guardare certi progetti di Manhattan la mia non sembra una visione condivisa».
A cosa si riferisce?
«Manhattan è cresciuta secondo la culture of congestion che era un pensiero degli anni Novanta basato sulla scelta della densità come opportunità. Oggi le cose sono cambiate e quella cultura non è più sostenibile ma, incredibilmente, sembra che non tutti siano di quest’opinione. Prendiamo Hudson Yards, ad esempio, l’ultimo grande progetto urbano da poco terminato: c’è una densità assurda, e nessuno spazio verde, pochi spazi pubblici.
Torri di vetro troppo alte con finestre che non si aprono, troppo vicine l’una all’altra con in mezzo, anziché verde e aria, altra architettura, altra densità. È un progetto che non tiene conto della dimensione umana».
Il concetto di sostenibilità include anche l’arte?
«Arte, poesia, musica: la cultura non è un elemento accessorio o decorativo, ma un elemento di senso e integrazione, e oggi ancora di più di fronte alla tragedia della pandemia l’atto creativo è resistenza, visione, rinascita».
Fra i suoi progetti a scala umana ce n’è anche uno per l’Italia, a Cassino…
«L’Italia è un paese che ha un tessuto costellato di città di medie e piccole dimensioni, dove esiste già la dimensione umana e quindi ci si può lavorare, integrando architettura, arte, natura, tecnologia, sistemi di collegamento virtuali e reali. Cassino potrebbe essere un progetto molto interessante di rigenerazione urbana con un piccolo museo con vista sull’abbazia».