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 2021  agosto 23 Lunedì calendario

Geopolitica degli studi economici

In questi anni il mito della competenza neutrale e benevola ha fatto dimenticare a molti una questione essenziale: quella del potere. È un aspetto trascurato in parecchie discipline, in modo particolare in economia. Finché si resta nell’aneddotica o nella critica teorica è difficile cogliere la reale dimensione del problema. Sono preziosi a tal riguardo alcuni recenti studi quantitativi sulla diffusione geografica del potere accademico.
Dati alla mano, la situazione è impressionante. Secondo un articolo di Fontana, Montobbio e Racca (rilanciato di recente dal celebre economista Dani Rodrik su Project Syndicate), nelle otto maggiori riviste economiche scrivono quasi soltanto autori che vivono nei Paesi occidentali. Nelle pubblicazioni dominano gli Stati Uniti (73%), seguiti dall’Europa (16%). Al resto del mondo – che vale quasi il 70% del Pil globale – resta un magro 11%.
Ora proviamo a entrare nei comitati editoriali delle riviste, un nucleo di potere centrale nella ragnatela della vita accademica. Per uno studioso, le pubblicazioni sono benzina nel motore della sua carriera. Gli editor delle riviste, accettando o rifiutando i suoi articoli, ne decidono di fatto le sorti. Un recente studio di Angus, Atalay, Newton e Ubilava pubblicato su VoxEu analizza i 49 journal economici più importanti. La dimensione del dominio a stelle e strisce è sbalorditiva. Il 63% del potere editoriale risiede negli Stati Uniti: sei responsabili su dieci delle riviste più importanti lavorano negli Usa.
Le università del solo Massachusetts hanno più potere di quattro continenti messi insieme (Asia, Sud America, Africa e Oceania). A conti fatti, all’Europa rimane il 27% del potere editoriale, mentre il resto del mondo ne ha solo il 7%.
Per alcuni questo sistema riflette semplicemente la superiorità dell’accademia statunitense e occidentale in generale. Secondo altri, invece, questa concentrazione di potere è soprattutto la conseguenza di reti di conoscenze e frequentazioni. Secondo Dani Rodrik, “se una ricerca viene presa sul serio dipende criticamente dal fatto che gli autori siano andati nelle scuole giuste, conoscano le persone giuste e viaggino nel giusto circuito di conferenze”. E dove si trovano le “reti giuste”? In Nord America e, in misura minore, in Europa occidentale.
A questo punto, però, ci si potrebbe chiedere perché è così importante dove vivono e lavorano gli economisti. Del resto, si potrebbe pensare che, alla lunga, l’onestà e la competenza dei singoli prevalgano sull’effetto delle reti in cui sono inseriti. Ma, come scriveva il poeta John Donne, “nessun uomo è un’isola”. Ogni studioso è inserito in un fitto network di relazioni sociali e lavorative che influenzano il suo lavoro. A maggior ragione questo vale per gli economisti, che spesso ricoprono ruoli di consulenza per società private, amministrazioni pubbliche e governi.
L’insufficiente diversità geografica nelle discipline economiche riduce le possibilità di confronto fra prospettive diverse e rischia di bloccare la libera competizione delle idee. Non solo: è possibile che gli economisti, anche involontariamente, esprimano favoritismi per chi lavora nel loro stesso ambiente.
Studiare economia dello sviluppo da un comodo ufficio a Harvard o in un’università africana non è la stessa cosa. L’esperienza sul campo è insostituibile. Non basta che nelle prestigiose facoltà occidentali entrino sempre più studiosi nati all’estero. “Gli economisti nati all’estero che vivono in Occidente sono tipicamente assorbiti da un ambiente intellettuale dominato da questioni e preoccupazioni dei Paesi ricchi”, sottolinea ancora Rodrik (che sa di quel che parla, essendo nato in Turchia e lavorando negli States).
Che l’economia diventi una disciplina davvero globale e pluralista non è una faccenda per specialisti, ma riguarda tutti: le ricette economiche che i governi applicano, infatti, non sono solo l’esito di crudi rapporti di forza fra classi sociali e potenze nazionali, ma si sviluppano anche nei dipartimenti di economia, soprattutto in quelli più potenti e ricchi.
Sugli squilibri attuali influisce sicuramente anche la proiezione globale degli Stati Uniti. L’ascesa della Cina potrebbe far scricchiolare il dominio Usa. Inoltre, le nuove tecnologie favoriscono la collaborazione fra studiosi molto lontani geograficamente. In ogni caso, però, il peso della storia e dei gatekeeper del mondo accademico non può essere sottovalutato.
Se è vero che la scienza progredisce un funerale alla volta, alcune strutture di potere sono dure a morire. Senza una maggiore consapevolezza del problema nell’opinione pubblica e nelle facoltà universitarie è difficile che cambino davvero le carte in tavola.