La Stampa, 23 agosto 2021
Le ferie nel Medioevo tra lussuria e penitenza
Nel Medioevo le feste ritmavano regolarmente la vita dei singoli e delle collettività. Oltre un quarto dei giorni era festivo: domeniche, Natale, Epifania, Candelora, Annunciazione, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, ricorrenze patronali o predicazioni. Anche quando arrivava un predicatore in città e teneva i suoi sermoni per giorni e giorni (e ogni predica durava parecchie ore) si sospendevano le usuali attività, dunque era vacanza, non si lavorava, si era liberi dalle usuali occupazioni.
Noi oggi associamo l’idea di vacanza al piacere, al divertimento, al godimento fisico: ecco, non era propriamente così nel periodo medievale, anzi fino almeno all’XI secolo la festa era sì sospensione del lavoro ma anche dell’attività sessuale. Dai Libri penitenziali, testi a uso dei sacerdoti che suggerivano la penitenza appropriata per ogni peccato, utilizzati fino al pieno Medioevo, si ricava una sorta di ossessione nei riguardi dell’attività sessuale regolarmente vietata nei giorni di festa. Preclusa nelle tre Quaresime (quaranta giorni prima di Pasqua, di Natale e di Pentecoste) ma anche negli anniversari delle nascite dei santi apostoli, nelle feste principali, in quelle pubbliche e in diverse altre occasioni specificate, ne derivava che restavano in media appena una cinquantina di giorni all’anno per la manifestazione lecita dello slancio sessuale. Dunque festa ha significato per un periodo non breve vacanza dal lavoro ma anche privazione del piacere, almeno in teoria.
Balli e mascheramenti
La festa implicava seguire le funzioni religiose e principalmente andare in chiesa. Si distingueva dal «giorno da lavorare» per l’abbigliamento ma non solo. Si caratterizzava anche per attività ludiche, non di rado trasgressive, che soprattutto a carnevale davano luogo a travestimenti e a eccessi di vario genere. Festa era ballare, cantare e darsi un’identità posticcia e mangiare in abbondanza. Fra i cibi da festa c’era la carne. Per la festa d’Ognissanti in Toscana vigeva una particolare abitudine alimentare: consumare un pranzo a base di oca. Meno terragno e più gentile l’uso per Pentecoste, detta Pasqua Rosada, di adornare le chiese di fiori o di far piovere durante la messa petali di rose. Usi che contraddistinguevano il tempo festivo.
Quanto ai mascheramenti, talvolta facilitavano offese e violenze. Che la festa sfociasse in atti aggressivi è abbastanza noto. I feroci putti fiorentini che amavano organizzare sassaiole e altre violenze sono passati alla storia così come il tentativo di Girolamo Savonarola di partire da loro per una profonda riforma dei costumi. Le feste liberavano non solo dal lavoro ma anche dal controllo e davano luogo ad attacchi alla gerarchia e all’onore in particolare delle donne.
Sul finire del Medioevo, dopo la cacciata da Firenze di Piero de’ Medici la milizia savonaroliana mise mano a una vasta operazione di cristianizzazione della principale festa pagana, il Carnevale. Nel 1497, anno di affermazione di un gonfaloniere savonaroliano e dunque della concreta possibilità di realizzare il programma politico e morale del frate domenicano, Savonarola intese capovolgere il trasgressivo e lascivo carnevale in un grande falò delle vanità convertendo i denari raccolti per vani festeggiamenti in una questua realizzata dai fanciulli, volta a finanziare il Monte di Pietà. A ben vedere e a modo suo anche il falò delle vanità organizzato da Savonarola rappresentava una peculiarissima festa, oltre alla liberazione dal peccato realizzata incenerendo libri giudicati lascivi, abiti, dadi e altri analoghi oggetti in luogo delle anime dei loro possessori. Un grande rito collettivo liberatorio suggestivo e partecipato.
Savonarola godeva di vasto seguito, ma togliere al popolo le feste era rischioso e non fu l’unico rischio che corse il frate. Ne uscì perdente. All’indomani del martedì grasso del 1497 si intensificarono le attività antifratesche e ben presto si affermò una nuova signoria contraria a Savonarola con il tumulto dell’Ascensione. Seguì il divieto di predicare per il frate il cui corpo venne bruciato il 23 maggio 1498 sulla stessa piazza dove era divampato l’anno prima il falò delle vanità. Per molti fu una festa: macabra, terribile ma partecipata.
Inferno sull’Arno
Anche in occasione delle feste del calendimaggio (l’antica festa del primo maggio) si registrava la caduta delle regole e l’abbandono alla vitalità incontrollata. Il giorno di calendimaggio del 1304 un gruppo di fiorentini organizzò una rappresentazione dell’inferno sul fiume Arno. Ne parlano le cronache. Su barche di varia foggia e misura vennero sistemati apparati scenici per riprodurre i luoghi e i supplizi dell’inferno con fantocci, graticole per arrostire i reprobi, caldaie piene di acqua bollente per bollirli, spiedi e altro ancora. L’effetto sul pubblico di questo spettacolo sconvolgente fu enorme, e duraturo il ricordo in considerazione anche del finale tragico con il crollo del ponte alla Carraia. Molti morirono per vedere la festa e così andarono di persona a verificare come erano le pene dell’inferno, commenta sarcastico il cronachista Marchionne di Coppo Stefani.
Una nuova razionalità
Il tempo libero dal lavoro doveva servire a «prendersi consolazione» il che non per tutti significava mangiare a crepapelle o lanciarsi in attività aggressive bensì, all’opposto, darsi alla preghiera e alla penitenza. Poteva anche essere tempo dedicato allo studio e alla riflessione. Alla fine del Medioevo in taluni ambienti intellettuali si venne affermando un nuovo concetto di svago sulla base di suggestioni del pensiero umanista.
Contestualmente si è dilatata una riflessione sul valore economico del tempo fondata su una nuova razionalità applicata agli affari e in particolare ai titoli di restituzione maggiorata del denaro prestato. Nel valutare l’esigibilità di un interesse assunse sempre più rilievo il trascorrere del tempo e la considerazione degli eventi che in quel tempo potevano prospettarsi, positivi o negativi che fossero.
È l’epoca degli orologi nelle piazze e dello sviluppo del pensiero del francescano spirituale Pietro di Giovanni Olivi secondo il quale «il tempo… è realtà specifica per ogni singolo oggetto e… rispetto a ciascuna cosa appartiene per proprietà o per diritto a questo o a quello». Il tempo diventa manifestamente un bene economicamente valutabile, qualcosa da non perdere, da investire per ricavarne il massimo profitto: siamo alle origini di molte forme del nostro attuale pensiero, ivi compreso il tormento del doverci divertire per forza in vacanza perché se no è tempo sprecato, un investimento sbagliato. Ottimo modo per rovinarci le vacanze!