La Stampa, 23 agosto 2021
Joséphine Baker, prima donna nera nel Panthéon
È durata mesi e mesi la trattativa fra Emmanuel Macron e i discendenti di Joséphine Baker (1906-75) e gli intellettuali, che spingevano perché le spoglie della ballerina anticonformista fossero accolte al Panthéon, con i grandi di Francia. Ebbene, alla fine il presidente ha detto di sì. Non era una decisione scontata, perché Joséphine resta per i più la donna che ballava con i gonnellini fatti di banane e i seni nudi e storceva gli occhi in maniera bislacca, a Parigi, tra gli anni Venti e Trenta. Niente di più. In realtà fu anche una donna libera, spia per la Resistenza durante la Seconda guerra mondiale, in prima linea nella battaglia contro il razzismo. Sarà la prima donna nera a riposare al Panthéon. La cerimonia ufficiale è prevista il 30 novembre.
Freda Josephine McDonald, il suo vero nome, nacque in una famiglia poverissima, a Saint-Louis, nel Missouri. Da bambina andava a rovistare nei cassetti dell’immondizia alla ricerca di cibo. Si sposò per la prima volta a 13 anni, la seconda a 15. Iniziò a ballare a Broadway e a 19 anni si ritrovò a Parigi, dove diventò subito famosa, esibendosi nella “Révue nègre”. Sex symbol esotico, s’impose come una star internazionale, dimenandosi nel charleston e presentandosi nella vita di ogni giorno con un leopardo al guinzaglio. Ebbe da subito tanti amanti, uomini (come Georges Simenon ma anche Spadò, alias Alberto Spadolini, l’artista italiano, che allora a Parigi interpretava mezzo nudo come lei danze moderniste) e donne (vedi la scrittrice Colette e la pittrice messicana Frida Kahlo).
In polemica con l’America segregazionista, ottenne la nazionalità francese, dopo aver sposato, nel 1937, Jean Lion (ebreo, il suo vero cognome era Lévy). Joséphine iniziò a militare contro l’antisemitismo. Con l’inizio del conflitto, si mise a disposizione della Francia come spia (tante informazioni le raccoglieva alle serate dell’ambasciata d’Italia) e, dopo l’occupazione nazista, al servizio della Resistenza e degli alleati. Sfruttando la sua fama, forniva documenti, spesso nascosti nel reggiseno o con i dati top secret nascosti tra le note degli spartiti. Affittava in Dordogna il castello di Milandes, dove nascose partigiani ed ebrei. Lo comprò dopo la fine della guerra. Lì accolse dodici bambini orfani da lei adottati, di diverse nazionalità, la sua “tribù arcobaleno”, la chiamava così (undici sono ancora vivi, oggi una famiglia unita).
Joséphine si buttò negli Anni 50 nella battaglia per i diritti dei neri e nel 1963 partecipò alla storica marcia su Washington al fianco di Martin Luther King. Fu l’unica donna a prendere la parola, dinanzi a più di 250mila persone. La sua debolezza? La gestione dei soldi. Ridotta sul lastrico, nel 1969 fu sbattuta fuori dal castello. E fu Grace Kelly ad accoglierla a sue spese con la tribù in una villa sulla Costa Azzurra. Una sera del 1951, al ristorante dello Stork Club di New York, si erano rifiutati di servire al tavolo Joséphine. E lei aveva fatto una scenata. Grace era lì e ne andò per protestare: tra le due donne nacque una relazione profonda. Ancora la principessa fu tra i finanziatori di una tournée che doveva servire alla Baker a ripagare i suoi debiti. A 69 anni, nel marzo 1975, si ritrovò sul palcoscenico del Bobino a Parigi. Un successo incredibile. Ma, dopo il quattordicesimo spettacolo, esausta, il 9 aprile fu colpita da un’emorragia cerebrale. Morì tre giorni dopo.