La Stampa, 23 agosto 2021
L’eco-colpa scoraggia la lotta per l’ambiente
Gettare mozziconi di sigaretta al parco, abbandonare rifiuti di plastica in spiaggia, buttare per terra i chewing-gum masticati, prendere l’auto per brevi tragitti o semplicemente non aver fatto correttamente la raccolta differenziata. Sono tutti comportamenti dannosi per l’ambiente che provocano – o possono provocare – nei confronti di chi li compie un vero e proprio senso di colpa, il cosiddetto eco-guilt.
Letteralmente l’eco-guilt è il senso di colpa che proviamo quando facciamo qualcosa di sbagliato nei confronti dell’ambiente. Non stiamo facendo abbastanza per salvare il pianeta, continuiamo a inquinare, le nostre azioni quotidiane non bastano a fermare il riscaldamento globale e così siamo presi dallo sconforto, dalla paura, siamo assaliti da una sensazione sgradevole che può addirittura condurre all’immobilismo. Una sensazione che secondo recenti studi, può fare più male che bene.
Nel suo articolo pubblicato su Science, «Beyond the roots of human inaction: Fostering collective effort toward ecosystem conservation», Elise Amel, docente di psicologia dell’Università di St. Thomas, a St. Paul (Minnesota) e presidente della Society of Environmental, Population and Conservation Psychology, spiega le motivazioni del fallimento delle campagne di educazione ambientale e di sensibilizzazione adottate fino a pochi anni fa. Amel sottolinea come gli sforzi impiegati per informare le persone non abbiano portato a cambiamenti significativi nel comportamento: l’utilizzo della paura e del senso di colpa, infatti, non sono il metodo più efficace per spingere le persone verso un’azione duratura e costante nel tempo. Anzi, il senso di colpa può determinare il risultato opposto e cioè portare le persone a evitare del tutto la questione del riscaldamento globale, perché ci si considera sempre di più inadeguati ad affrontare la crisi climatica.
In verità, negli ultimi anni, sono molti gli studi che si sono concentrati sull’impatto del cambiamento climatico sulla psiche umana. Uno degli studi più completi è stato pubblicato nel 2011 sulla rivista «American Psychologist» e divide il fenomeno in tre categorie: effetti diretti, indiretti e psicosociali. Tra gli effetti indiretti c’è quello che L’American Psychological Association (Apa) definisce eco-ansia e cioè «la paura cronica della rovina ambientale» che «sta erodendo la salute mentale su larga scala». Come non ricordare Greta Thunberg raccontare della sua depressione causata dall’inazione degli adulti rispetto al problema ambientale?
In effetti, ad essere più preoccupati, ansiosi e frustrati dal progressivo degrado ambientale sono proprio i giovani delle cosiddetta Generazione Z. Rispetto all’eco-colpa, nonostante alcuni studi abbiano evidenziato che nel breve periodo possa portare a condurre stili di vita più virtuosi, come per esempio ridurre il consumo di carne, diventare plastic free, nel lungo periodo il rimorso non riuscirà a mantenere costante la motivazione. Le nostre scelte personali hanno un valore se s’inseriscono in una più ampia azione collettiva, e sembra dunque più giusto concentrarsi su come queste azioni possano creare cambiamenti sociali più estesi, piuttosto che cercare di essere più ecologici come consumatori.
Ma non è tutto. Se la dimensione dell’impegno collettivo non fa per voi, c’è addirittura chi si spinge oltre e arriva a definire una sorta di vademecum per “prevenire” i sensi di colpa per l’ambiente: impara dai tuoi errori, scegli la tua battaglia, concentrati su quello che puoi fare tu e non su cosa devono fare gli altri, usa l’eco-colpa come motivazione per fare meglio, ed infine, non perdere la speranza…