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 2021  agosto 22 Domenica calendario

Intervista a Emanuele Trevi

Due vite (Neri Pozza) di Emanuele Trevi, vincitore dell’ultimo Premio Strega, è un libro che lascia una profonda impressione. Una volta richiuso, continua a lavorare dentro il lettore. Attraverso la biografia di Rocco Carbone e Pia Pera, due scrittori ma soprattutto due amici scomparsi prematuramente, Trevi affronta temi universali, a volte dolorosi: l’amicizia con le sue contraddizioni, una ambigua aspirazione alla maturità, un tentativo di accettarsi e smetterla di considerare la sofferenza l’unica vera, quasi tangibile, prova della propria esistenza. Emanuele Trevi, critico letterario, è nato a Roma nel 1964 ed è autore di numerosi libri tra cui ricordiamo I cani del nulla (Einaudi, 2003), Qualcosa di scritto (Ponte alla Grazie, 2012) e Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019). Trevi, in Due vite, delinea il carattere e le opere di Rocco Carbone (1962-2008), ossessionato dalla necessità di semplificare, come se il mondo avesse regole che si possono scoprire, e autore di saggi e romanzi, ad esempio L’apparizione (Mondadori, 2002); e di Pia Pera (1956-2016), grande traduttrice d Pukin, autrice di romanzi «impossibili» e infine di saggi sulla cura del giardino divenuti imprevedibili bestseller, come Il giardino che vorrei (Electa 2006, ristampato nel 2015 da Ponte alle Grazie). L’autore sarà ospite al Festival «La città dei lettori» a Firenze nella serata di venerdì prossimo. In vista dell’incontro, molto atteso, lo intervistiamo con uno scambio di mail.
Ha fatto cadere lo steccato tra narrativa e critica letteraria. Chi sono i suoi maestri in questo stile?
«Indubbiamente, devo moltissimo sia a Cesare Garboli che a Pietro Citati. Quando si è giovani, trovarsi dei modelli da seguire è una fortuna, ma è molto meglio seguirne più di uno, e ancora meglio se i maestri che si scelgono... non si stanno affatto simpatici! Bisogna evitare ogni forma di soggezione in questo campo, costruire uno stile individuale è un lavoro lungo e delicato».
Non c’è il rischio di compensare la mancanza di alcuni passaggi narrativi tradizionali con una prosa d’arte «un po’ superata», come le rimprovera Rocco Carbone in uno dei passaggi del libro?
«Forse Rocco aveva ragione, ma un punto in comune lo avevamo. Lo ricordo bene quando studiavamo a Parigi, alla vecchia Biblioteca nazionale che stava a rue Richelieu, purtroppo trasferita in quel posto orribile che è Tolbiac, quando lavorava alla sua tesi di dottorato su Alberto Savinio. Tutti e due adoravamo Savinio. E Savinio fa spesso della prosa d’arte, molto spiritosa ma sempre prosa d’arte».
Rocco Carbone e Pia Pera. Due suoi amici. Due scrittori molto diversi. Qual è il loro posto nella letteratura del secondo Novecento?
«Non so rispondere perché a un certo punto, come per magia, è finita non la letteratura, ma la storia della letteratura. O almeno non sappiamo più vederla. Tutti procediamo come dei solitari, o in piccole costellazioni transitorie».
Il canone delle letture importanti non è un po’ ristretto? Lei quali grandi libri dimenticati o nascosti consiglierebbe?
«Ho una certa esperienza di riscoperte. Ma i casi come Revolutionary Road o Stoner sono rari e imponderabili. In questo momento sto lavorando alle memorie di Vittorio Gassman che mi sembra uno scrittore di prim’ordine».
Perché ha sentito di dover fare i conti con Rocco Carbone e Pia Pera? E come ha trovato la giusta distanza, che poi è questione di stile, per raccontare due vite così vicine a Lei?
«Cerco sempre la giusta distanza nel tempo, non è il libro in sé che conta, raccontiamo sempre la stessa storia, è il momento giusto per scriverlo che è importante, da lì dipende tutto».
Rocco Carbone e Pia Pera in un certo senso, prima di morire, hanno forse trovato una strada per accettarsi. Accettarsi: è questo il vero nome della felicità?
«Accettarsi mi sembra una premessa fondamentale in ogni strategia di sopravvivenza, poi bisogna metterci dell’altro, non basta. Nel caso del mio libro, mi sembra di essere arrivato a raccontare un equilibrio momentaneo vantaggioso con la vita – finito il libro, si dovrebbe tornare a rileggere l’epigrafe di Cristina Campo».
Me la può ricordare?
«Certo: Quanto a essere felici, questo è il terribilmente difficile, estenuante. Come portare in bilico sulla testa una preziosa pagoda, tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli e di fragili fiamme accese; e continuare a compiere ora per ora i mille oscuri e pesanti movimenti della giornata senza che un lumicino si spenga, che un campanello dia una nota turbata».
Bellissima.
«È tratta da una lettera del febbraio 1959 a Gianfranco Draghi».
Il giardino di Pia Pera mi ha fatto subito pensare all’Eden... C’è qualcosa di soprannaturale che preme sempre alle porte delle nostre coscienze?
«Non lo so, la cosa più verosimile è che siamo destinati a svanire nel tutto, però non ho ragione di negare che forze invisibili governino la vita».
Lei ha descritto anche due malattie diverse. Il bipolarismo di Carbone e la Sla di Pera. Il dolore insegna qualcosa o è sottrazione pura e semplice?
«Rocco e Pia sono stati alle prese con cose terribili, hanno combattuto la loro battaglia. Pia è stata straordinaria. La forza d’animo è importante, è un tema evidente nel mio libro. C’è un narratore che sente di mancare di quella forza d’animo e la descrive da questo punto di vista».
Nelle pagine iniziali, Lei scrive che più ti avvicini a una persona, più quella inizia a somigliare a un quadro impressionista o a un muro scrostato; e più ti allontani, quella persona diventa troppo simile alle altre. Ma allora qual è lo spazio dell’amicizia e dell’amore? Un commovente ma inevitabile malinteso?
«No, non credo che sia un malinteso, quando si crea una distanza giusta si crea una visibilità dell’altro. Dal punto di vista della resa, dell’efficacia della scrittura, questo è punto decisivo».
Ultima domanda. Tra le sue attività, c’è il lavoro su Philip K. Dick, visionario scrittore di fantascienza, destinato a confluire in un «Meridiano».
«Dick ha scritto almeno una decina di libri stupendi e almeno altrettanti racconti. Non scriveva bene nel senso comune, ma era capace di creare immagini del mondo straordinariamente poetiche, sorprendenti».