il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2021
La Gialappa’s Band raccontata Giorgio Gherarducci
Sono i The Voice della televisione italiana, vuoi per longevità (“andiamo avanti da oltre 35 anni, chi l’avrebbe detto”); vuoi per indiscusse capacità (“Molti comici ci dicono grazie? Il grazie è reciproco”); vuoi perché i volti, per anni e anni, sono rimasti celati: di loro, appunto, si sentiva solo la voce come se fossero tre amici al bar seduti davanti alla tv e un accumulo di birre nel corpo (“questo dato ci ha preservato dal montarci la testa o derive simili”).
Giorgio Gherarducci è uno dei tre della Gialappa’s Band (gli altri sono Marco Santin e Carlo Taranto) e dal 1986 ha interagito con la “Nazionale” della risata: da Paola Cortellesi a Maurizio Crozza, da Antonio Albanese a Teo Teocoli, fino a lanciare Aldo, Giovanni e Giacomo (“con un ‘però’: abbiamo sempre e solo coinvolto chi sentivamo affine a noi”).
Dopo sua maestà Pippo Baudo siete i più amati, osannati e ringraziati della tv…
Ci fa piacere: abbiamo lavorato bene e lasciato un buon ricordo; soprattutto abbiamo sempre cercato di tutelare i comici rispetto ai meccanismi della televisione che sono un po’ fagocitanti: per questo a volte siamo passati per stronzi.
Tradotto?
Chi lavorava con noi doveva stare solo con noi, quindi vietavamo impegni paralleli e solo per non sputtanare i personaggi e non stressare certi meccanismi; comunque tra noi c’è stato un mutuo scambio.
Come li sceglievate?
Prendevamo gente che aveva alle spalle una gavetta e li curavamo, seguivamo testi, li affidavamo ad autori di fiducia, mentre altre trasmissioni sceglievano comici che avevano nel curriculum cinque serate, poca esperienza e venti minuti di repertorio; magari diventavano famosi in un attimo: dopo due mesi si compravano una Mercedes e dopo un anno finivano nel dimenticatoio. E con danni psicologici.
Quanto siete stati pressati dagli artisti per entrare nei vostri programmi?
Poco: non eravamo facili da raggiungere, non avevamo neanche un agente; anzi, a volte siamo stati supportati dalla fortuna, specialmente quando se n’è andato Teo (Teocoli). (Sorride) In realtà non se n’è andato: ci ha proprio abbandonato, creando un grosso vuoto in scaletta, circa un quarto d’ora di trasmissione.
Una voragine.
Teo ci lasciò a tre ore dalla messa in onda, con noi senza presentatore: lo sostituimmo con Claudio Lippi che per caso passava dagli studi televisivi e per salutarci: lo avevamo preso in giro in trasmissione e sempre per caso conoscevamo i suoi lavori degli anni precedenti, quando Canale 5 si chiamava Tele Milano.
E lì…
Ci siamo guardati e deciso all’istante: “Fermo!” Così abbiamo organizzato una prova di tre minuti, lui ha risposto da pirla alle nostre provocazioni, noi felici, e dopo mezz’ora era in onda.
Pazzi, consapevoli o solo disperati?
Sicuramente disperati, ma ci siamo affidati al segno del destino.
Con Teocoli che era successo?
Quell’anno si erano aggiunti molti nuovi comici come Francesco Paolantoni e Bebo Storti, e lui ne soffriva: avevano successo tanto quanto lui; (pausa) questa roba gli stava sulle palle e Teo quando è in buona è l’uomo più meraviglioso del mondo, ma quando non è in buona lo prenderesti a testate.
Sembra lo stereotipo dell’artista.
Lo sa anche lui e siamo amici, ma è il suo approccio alla vita: quando è al top va giù, e poi trova il gusto a risalire.
Il casus belli?
Prepariamo uno sketch con tutti i protagonisti del programma e Teo rifiuta di partecipare. Andiamo avanti senza di lui e al momento di guardare il risultato per decidere se andava bene o meno, arriva e sentenzia: “Questo non va in onda”. E io: “Invece sì”.
Ahi.
A quel punto si toglie la giacca da Peo Pericoli (uno dei suoi personaggi) e se ne va dagli studi tutto truccato sul viso e con i ciglioni finti: ancora rido se immagino chi l’ha incontrato per strada.
Ci vuole pazienza…
Metà del lavoro degli autori televisivi è un concentrato di psicanalisi; però quando costruivamo i cast, l’aspetto caratteriale è sempre stato centrale: mai lavorato con chi non avevamo affinità o non ci stava particolarmente simpatico. Ci dovevano convincere pure umanamente.
Umanamente, cosa rifiutate?
Premesso: tutti i comici sono un po’ egocentrici.
Detto questo?
Evitiamo chi parla solo di se stesso; esistono due categorie di professionisti: chi pensa che qualsiasi cosa che dice fa ridere e chi pensa che qualsiasi cosa che dice non fa ridere; (pausa) una volta, grazie a Rolling Stone, ho intervistato Woody Allen e gli ho chiesto in quale delle due categorie si riconosceva.
Risposta?
Ovviamente nella seconda e ha aggiunto: “Chi appartiene alla prima recita pure nella vita”; (pausa) una chiave per capirli è stare con loro quando riguardano il proprio sketch: assumono un’espressione unica.
Qual è?
Un po’ compiaciuti, ma avvolti da un filo di timore.
Il più solido con il quale ha lavorato.
Difficile dirlo; Paola Cortellesi è sempre molto tranquilla; poi Aldo, Giovanni e Giacomo, ma erano aiutati dall’essere in tre; quando si è un gruppo, ed è accaduto anche a noi della Gialappa’s, se uno perde il filo, si monta la testa o altre casualità, gli altri due lo rimettono a posto.
Un comico del gruppo degli insicuri.
Fabio De Luigi era una costante ed eravamo pronti alla sua reazione: alla fine dei suoi sketch derubricava tutto a merda.
Chi altro?
Paolo Hendel: micidiale; (ride) anni fa scopriamo di stare entrambi ad Amsterdam: era lì con la sua futura moglie e io con la mia; ci vediamo un pomeriggio e per cena aveva prenotato in tre ristoranti.
Perché tre?
Appunto, per l’insicurezza; (cambia tono) dopo cena lo porto al Bulldog (celebre coffee shop), ci fumiamo una canna e sua moglie sviene, mentre disperato urla: “Cosa hai fatto!”. Lui si era astenuto.
Chi dei vostri ha dato meno del previsto?
Bebo (Storti) e Francesco (Paolantoni) sono bravissimi ma pigri. Ed è un peccato: avrebbero potuto ottenere molto di più.
Invece voi Gialappa’s rientrate nella categoria dei fuoriclasse…
No, in quella del mistero: siamo solo tre persone con un po’ di senso dell’umorismo, con un bagaglio culturale assolutamente medio, appassionati di calcio, che per una serie di coincidenze e circostanze fortuite, si sono ritrovati ad affrontare un lavoro non previsto; il nostro vero talento è stato quello di riuscire a cavalcare queste botte di culo per 35 anni.
La botta di culo può valere all’inizio…
Con me tutto è nato quando un giorno ho chiamato una trasmissione di Radio Popolare Milano e dopo la telefonata mi hanno invitato in trasmissione; (sorride) passati quattro anni eravamo già candidati al Telegatto.
Da girare la testa.
Non andare in video è stato un grosso aiuto: abbiamo mantenuto una vita normale, senza perdere la testa e, come dicevo prima, in tre ci siamo marcati rispetto alle derive dell’ego.
Voi tre culturalmente di sinistra…
Esatto.
E nella tv di Berlusconi non vi siete mai sentiti…
(Anticipa la fine della domanda) Foglie di fico?
Eh…
Certo, e per anni; (pausa) e che devo di’? La verità è una: abbiamo portato in tv ciò che volevamo, senza censure, a parte due o tre casi piccoli.
Su cosa?
Una volta per Previti: sostenevamo che teneva per le palle Berlusconi e Mediaset ci disse che quella parte non poteva andare in onda. E noi: “Allora chiamiamo i giornali”. “No, mettiamoci d’accordo”.
Risultato?
Firmammo una carta che dava a noi la responsabilità del servizio; Previti ci intentò una causa per diffamazione e con la richiesta di un miliardo di lire. Abbiamo vinto e ha pagato pure le spese legali.
Una goduria.
Non piccola; in un altro caso il direttore di Rete si appellò alla par condicio per un servizio su Maurizio Gasparri; però sono due casi, in Rai sicuro succede di peggio; (pausa, ride) Berlusconi lo puoi prendere per il culo su qualsiasi aspetto tranne che sull’altezza.
Soffre.
Con Albanese creammo il personaggio di Pier Piero (il giardiniere gay di Arcore): anni dopo andiamo a una festa di Raimondo Vianello e troviamo pure Pier Silvio Berlusconi che ci ferma: “Come sapevate che il nostro giardiniere è gay?”.
Le malelingue sostengono che il giardiniere gay fosse una parodia proprio di Pier Silvio.
Non è vero.
In trasmissione siete celebri per i vostri scherzi.
Ad Alessia Marcuzzi abbiamo lasciato il microfono aperto mentre andava in bagno.
Oggi verrebbe definito “molestia”.
Ma era goliardia! Anni fa, ad altri, lo hanno lasciato aperto per sbaglio e se ne sono sentite delle belle.
Il politically correct ha reso tutto più complicato?
Se anni fa ci fosse stato questo clima, avremmo subito perenni rotture di palle.
Esempio.
Il conte Uguccione che pensava solo alle trombate, oppure Alfio Muschio, il leghista di colore che parlava in bergamasco. Oggi per chi fa satira la situazione non è semplice.
Non troppo.
Attualmente siamo su Twitch (piattaforma streaming) e lì non puoi dire “negro” ma puoi bestemmiare.
Quanto avete contribuito alla fama del Grande Fratello?
Anche qui, solo un mutuo scambio: il GF ci ha allungato la carriera di dieci anni e Mai dire Grande Fratello ha permesso a un certo tipo di pubblico di parlare con cognizione di causa del programma del momento e senza vederlo (la Gialappa’s prendeva in giro i vari partecipanti assegnando loro dei soprannomi che ancora oggi li definiscono).
Alcuni sono celebri grazie a voi.
Nella prima edizione c’era l’Ottusangolo (al secolo Sergio Volpini) che non combinava nulla ma se ne usciva con una serie infinita di stupidaggini, quindi è diventato un nostro eroe: quando è andato in nomination con uno più forte a livello drammaturgico, ha vinto, e il giorno dopo ci hanno chiamato quelli della produzione avvelenati.
Il comico che le suscitava maggiore ilarità.
È dura; (silenzio) non ci riesco.
Il Mago Forest ha parlato di amore per voi.
Alt! Dico lui. Due anni fa mi ha pure sposato: quaranta minuti di cerimonia con gli invitati piegati in due per le risate. Lui è una persona speciale.
Un errore che non rifarebbe.
Forse, ed è una stupidaggine, nei titoli di coda dovevamo mandare le immagini dei comici e associare i nomi reali.
Perché?
Alla fine del programma andavamo al ristorante, magari con Crozza, De Luigi e la Cortellesi; solo che in trasmissione erano sempre truccati e soprattutto non li chiamavamo mai con il loro nome, e fuori dagli studi mi rendevo conto che venivano riconosciuti ma senza sapere chi fossero.
È importante.
In parte, e tutti, dopo un po’ se ne sono andati: con noi gli è mancata una completa riconoscibilità. Però non ci possiamo lamentare della carriera, abbiamo sempre lavorato come se il primo anno fosse anche l’ultimo, e alla fine ne abbiamo inanellati 35.
Se riguarda a lei di 35 anni fa, cosa pensa?
Alla mia faccia da pirla, vestito di merda e con i capelli da nerd.
Voi chi siete?
Tre medioman con un po’ di senso dell’umorismo.