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 2021  agosto 22 Domenica calendario

Disuguaglianza, tre case studies

Nelle democrazie europee e del Nord America le diseguaglianze socio-economiche sono cresciute enormemente a far capo dagli anni 80. Ciò è avvenuto non soltanto nei Paesi più liberisti con una più ampia accettazione dei meccanismi di mercato da parte dell’opinione pubblica; ma altresì nelle socialdemocrazie di fede solidaristica del Nord Europa. 
Lynch, affrontando il più vasto tema dell’ineguaglianza attraverso le lenti della salute dei cittadini, analizza tre case studies: Regno Unito, Francia e Finlandia, cercando di trovare una risposta al perché l’ineguaglianza sia così radicata anche nelle democrazie. Le diseguaglianze a livello di salute risultano correlate a quelle di reddito e alle cause sottese a queste ultime, ma non sono lo stesso problema. 
Il mutamento nel modo di concettualizzare le diseguaglianze è coinciso con l’avvento del paradigma neoliberista nei decenni 80 e 90. Le diseguaglianze di reddito non sono semplicemente imputabili a mutamenti dovuti agli avanzamenti tecnologici: la politica ha un ruolo nevralgico nel generare certe forme di ineguaglianza. Tanto che, come ha ben argomentato Katharina Pistor in The Code of Capital: How the Law Creates Wealth and Inequality (2019), soltanto l’azione politica può intervenire efficacemente a moderare l’accumulazione di capitale e le conseguenti ineguaglianze.
Quando il paradigma neoliberista sostituì nell’opinione pubblica il consenso per le misure d’ispirazione keynesiana del dopoguerra, esso finì col rigettare anche le politiche che avrebbero potuto facilitare la ridistribuzione dei redditi e della ricchezza. Il neoliberismo aveva ben poco da dire sul senso delle diseguaglianze socio-economiche. Poiché il suo focus era sulla crescita del Pil nonché dei valori finanziari, come ha dimostrato Marianna Mazzucato in Il valore di tutto (2018).
Il neoliberismo si inserì nella politica europea a partire dagli anni ’80. Per dirla con le parole di Margaret Thatcher, che ne fu alfiere, non c’era “alternativa” a queste idee. Peraltro, nei case studies analizzati da Lynch emerge che anche gli esponenti delle forze politiche di centro-sinistra ritenevano cambiati i loro elettorati. Essi fecero propri i tabù politici contro il deficit spending per ingraziarsi le istituzioni finanziarie internazionali. Ma essi non abbandonarono del tutto né gli elettorati della working-class né l’obiettivo di rendere la società più equa. Invece traslarono la questione delle diseguaglianze socio-economiche a livello di assistenza sanitaria con l’obiettivo di raccogliere sia gli elettori delle classi lavoratrici sia quelli della classe media.
Comunque, la riduzione delle diseguaglianze non si realizzò. Le divergenze sia nelle condizioni socio-economiche sia nella salute dei cittadini si approfondirono malgrado i policy-maker disponessero delle informazioni necessarie per affrontarle. Diversi rapporti assai noti come quello del Who Regional Office for Europe, nel 2013, e quello di Lancet-University of Oslo Commission, nel 2014, indicavano quali azioni politiche intraprendere. 
Vi era un diffuso consenso fra i ricercatori che si occupavano di salute pubblica e le élite politiche che operavano a livello internazionale in Europa nell’inquadrare le ineguaglianze nella salute come un effetto di disparità nelle determinanti sociali della salute. Solo una risposta politica che implicasse la collaborazione dei molteplici istituti e dipartimenti di governo, coordinati a livello nazionale, poteva ridurre le ineguaglianze che determinavano le condizioni di salute. Infatti ciò comportava sia interventi di regolazione dei fattori sociali a valle come assistenza, nutrizione, abitazione; sia a monte come ineguaglianze nei redditi e nel potere politico. Invece innovazioni importanti nella scienza medica condussero a un approccio biomedico, piuttosto che sociale, divenuto dominante nello studio della salute della popolazione in gran parte del XX secolo e di quello attuale. La medicalizzazione delle diseguaglianze ha finito col perpetuarle. 
Il neoliberismo si inserì nella politica europea con una visione fideistica nella superiore capacità dei mercati nel produrre risultati ottimali per la società: politiche macroeconomiche monetariste, deregulation, privatizzazioni, New Public Management. Mentre un gruppo di attori impregnati di tali idee e dotati di un nuovo potere politico furono in grado di imporle: protagonisti finanziari globali, ministri delle finanze e del commercio, regolatori europei, corporation e multinazionali.
I regimi di welfare dei trente glorieuses e il neoliberismo collisero, finendo col modellare a modo loro i regimi di ineguaglianza emersi negli anni 90; collocando la questione dell’ineguaglianza sociale come un problema di investimento sociale invece che di cattiva distribuzione delle risorse sociali; inquadrando le ineguaglianze di salute come una questione di erogazione di cure versusineguaglianze nelle determinanti sociali della salute.
La svolta neoliberista si è compiuta anche a livello retorico e di narrazione. Quando le forze di centro-sinistra desistettero dal cercare di mobilitare gli elettori lungo linee di classe, i loro elettori furono disponibili per narrazioni sulla base di altre identità e preferenze (come nazionalismo, identità regionale, identità etnica).
A giudizio di Lynch, se i partiti di centro-sinistra desiderano riguadagnare il supporto degli elettori devono elaborare un nuovo paradigma narrativo, rinunciare a quello neoliberista e riappropriarsi dei temi che riguardano la redistribuzione e la regolazione politica del mercato.
Il punto è che, con la neo-globalizzazione, non si tratta più di redistribuire i redditi e di regolare il mercato a livello nazionale; quanto di imporre nuove regole a livello internazionale (come, per esempio, sta avvenendo con la minimum tax globale proposta dal presidente Biden) che aggiornino alcuni “codici del capitalismo” per eliminare quelle disparità di opportunità e ambientali che generano le diseguaglianze socio-economiche.