Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2021
Meraviglioso kabinett di Herzog & de Meuron
Acqua del Reno, hashish, cane bagnato e patchouli. È la ricetta del «profumo di città» – in questo caso Rotterdam – sviluppata dai celebri architetti svizzeri Jacques Herzog & Pierre de Meuron in un «esperimento olfattivo» del 2004, oggi conservato in una serie di provette ben ordinate su di uno scaffale nella periferia di Basilea. Poco più in là, l’enorme fotografia scattata da Andreas Gursky dello stadio olimpico di Pechino – sempre opera loro – è parcheggiata in un corridoio, in penombra, a pochi passi dal suo grande plastico apribile. Girando lo sguardo si scorgono due modellini meno appariscenti, «in attesa di giudizio» (leggiamo su un cartellino): sarà deciso se promuoverli a pezzi da collezione o condannarli come Abfall, spazzatura.
Siamo nel ventre di un edificio anonimo alle porte di Basilea – quartiere di Dreispitz, paesaggio industriale ammorbidito dal recente rinnovamento urbano – e più esattamente nel cosiddetto “Kabinett”, spazio in bilico tra l’archivio e lo showroom, l’atelier e la Wunderkammer, inventato da Herzog & de Meuron (Premio Pritzker 2001) per dominare l’entropia documentale e materiale prodotta dal loro studio. Dal 1978 a oggi hanno infatti lavorato a oltre 500 progetti che hanno generato disegni, fotografie, plastici e prototipi, per non parlare di corrispondenza, fatture, pubblicazioni e via dicendo.
Che cosa fare di tutto ciò? Si tratta di «scarti di produzione» o di preziosi testimoni? Opere d’arte o rifiuti? Simili domande impegnano da tempo i due architetti, che ragionano anche sul passo successivo di questo processo di «sublimazione» del lavoro di bottega: come esporre l’architettura? Al contrario dell’arte tradizionale – il classico quadro incorniciato – un edificio non può essere esposto in un museo (l’Altare di Pergamo a Berlino è cosa eccezionale); si deve perciò ricorrere a simulacri, surrogati, riproduzioni e feticci. Da questa prospettiva, il Kabinett è l’esito delle riflessioni sviluppate da Jacques e Pierre con artisti e critici come Rémy Zaugg (scrisse The Art Museum of My Dreams, sul rapporto tra contenitore e contenuto espositivo) e Philip Ursprung, che anni fa curò il volume Natural History, suggerendo un parallelo fra le tracce lasciate dal progetto e i reperti in un museo di storia naturale.
I piani principali del Kabinett ricordano proprio simili raccolte. Gli ambienti (open space di parquet e cemento) sono occupati da lunghe teche in legno e cristallo, con all’interno centinaia, anzi migliaia di plastici grandi come il palmo di una mano o extralarge, di ogni profilo e colore. Legno, cartoncino, policarbonato, plastica, poliuretano, vetro, ferro e pietra: un arcobaleno di forme all’inseguimento del mondo reale. Difficile rintracciare un darwinismo architettonico perdendosi in questa collezione; viene piuttosto in mente il Kunstmuseum di Basilea con le 11 Vitrinen di Joseph Beuys, teche riempite di oggetti d’ogni sorta e usate come mezzo artistico per eliminare le barriere tipologiche nell’arte e ordire inaspettate relazioni. Proprio come accade osservando questo skyline in miniatura, in cui dozzine di varianti per la Elbphilharmonie di Amburgo si mischiano ad altre opere iconiche come Tate Modern a Londra, De Young Museum a San Francisco, Fondazione Feltrinelli a Milano. La fredda tassonomia con cui sono elencati i progetti ci riporta nel mondo delle scienze: niente nomi o date ma numeri progressivi, da 1 a 500, come misteriosi fossili ancora da decifrare.
Il regno dei modelli è solo la punta dell’iceberg, poiché il Kabinett (diretto dalla senior partner Esther Zumsteg) comprende altre sezioni dedicate a disegni e schizzi, alle immagini, ai testi e a reparti speciali. Cospicua è la collezione d’arte dei due architetti (negli anni hanno collaborato con artisti quali Jeff Wall, Thomas Ruff, Ai Weiwei e molti altri), con una stanza dedicata a Zaugg; c’è anche la collezione di Ruth e Peter Herzog, un’enciclopedia visiva di 500mila fotografie anonime. La varietà delle collezioni si riflette nella polifunzionalità dell’edificio, disegnato dagli stessi Herzog & de Meuron come esperimento tipologico. Il Kabinett occupa i piani interrati e il basamento, mentre sopra ci sono la succursale dello studio (il quartier generale è in centro) e 40 appartamenti. L’edificio sembra più antico di quanto non sia (2014), ma è previsto: i pluviali scaricano l’acqua sulla facciata di cemento, cercando l’invecchiamento precoce (perversioni d’architetto).
Per ora il Kabinett, ancora in formazione, non è aperto al pubblico: gli studiosi sono ricevuti solo con motivate ragioni (e alcune aree rimangono off-limits), anche se non mancano le occasioni di scambio con la città. Prima di tutto, questa Camera delle meraviglie è infatti una risorsa interna, utile a chi lavora nello studio (400 persone) per nutrirsi – e specchiarsi – nell’Archeologia dell’immaginario (titolo di una mostra del 2002) della coppia basilese. Specie nella Project Room, dove quotidianamente si lavora a mostre, allestimenti, libri ed eventi speciali: «l’idea è quella di non musealizzare l’archivio – ci dice Giorgio Azzariti, giovane architetto italiano parte del team – ma di mantenere un processo attivo. L’archivio non è un luogo morto». Se il lato pedagogico di questa missione si riallaccia in parte alla tradizione avviata da John Soane a Londra nell’Ottocento (la sua casa-museo stipata di sorprese architettoniche nacque anche con intenti didattici), a Basilea si sente però forte – in termini di contenuti, aspirazioni e modalità di fruizione – l’influente sistema locale dell’arte contemporanea, di cui il Kabinett è parte. Mettendo insieme tutti questi elementi si ottiene un luogo fuori dal comune, in cui oltre che l’architettura stessa – intesa come Denkform (forma di pensiero) – si può ammirare la tensione esistente tra una serie di coppie apparentemente oppositive: memoria e oblio, pubblico e privato, riflessione e celebrazione, esposizione e occultamento, genio individuale e lavoro collettivo.